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FABIO MUSSO, IL CALCIO COME PASSIONE

Se Michele Salinas è la memoria storica del Quiliano, l’attuale allenatore degli Allievi della Veloce Fabio Musso può essere considerato a pieno titolo paladino del calcio quilianese avendo difeso, sotto diverse vesti, i colori di entrambe le squadre. Dopo una milizia ultradecennale tra i pali del Quiliano iniziata nella categoria Allievi, è stata un’intuizione dello […]

Se Michele Salinas è la memoria storica del Quiliano, l’attuale allenatore degli Allievi della Veloce Fabio Musso può essere considerato a pieno titolo paladino del calcio quilianese avendo difeso, sotto diverse vesti, i colori di entrambe le squadre. Dopo una milizia ultradecennale tra i pali del Quiliano iniziata nella categoria Allievi, è stata un’intuizione dello storico presidente Francesco Landucci a condurlo, una volta appesi i guanti al chiodo, sulla sponda delle “violette” del Valleggia. «Esatto. Dopo che avevo allenato per due anni la squadra juniores del Quiliano, Landucci mi ha chiamato per chiedermi di provare a rifondare la prima squadra del Valleggia che era appena retrocessa in Terza Categoria. Mi ha dato carta bianca offrendomi la possibilità di scegliermi i giocatori e, di conseguenza, costruire un gruppo a immagine e somiglianza mie e della mia idea di calcio: ovvero, molto più basata sui rapporti personali, sulla capacità e la voglia di fare gruppo e di stare bene insieme per poi raggiungere anche i risultati sportivi. Che, per fortuna, non sono mancati.»

PIACERE DEL GIOCO E VOGLIA DI PROGETTO

Partiamo dall’inizio: come è quando è nato il tuo desiderio di diventare un calciatore?

«Il desiderio è stato comune a quello della maggior parte dei ragazzini di tutta Italia. Ero scarso, lo ammetto, anche perché ero in sovrappeso. Ma avevo una grande passione e sono fortunato a incrociare, soprattutto nel Quiliano, persone di altissimo livello morale come ad esempio Longoni, il responsabile del settore giovanile, che mi ha accolto facendomi sentire comunque protagonista anche quando giocavo poco. E poi ricordo con affetto l’allenatore dei portieri Caviglia – oggi scomparso, papà dell’ex sindaco di Vado Ligure – che per me è stato veramente un maestro. Sono andato via da Quiliano solo per tre anni, durante i quali ho giocato nel Portovado, nello Speranza e nel Pallare, ma per il resto sono sempre rimasto nella squadra del paese dove abitavo con i miei genitori. Nonostante i limiti di cui ho parlato in precedenza, ero un giocatore che aveva grande voglia di allenarsi e di stare nel gruppo per dare una mano. E mi sono tolto delle soddisfazioni, come quella di disputare una partita di Coppa Italia contro il Savona – allora retrocesso in Eccellenza, mentre noi giocavamo in Promozione – della quale mio padre conserva tuttora un bellissimo articolo in cui si narra di un Musso “autore di due parate da campione” contro Gatti e Calabria, le punte del Savona dell’epoca. Un percorso, il mio, che mi ha visto per anni nelle vesti di secondo portiere ma che mi ha permesso, attraverso gli insegnamenti degli allenatori che ho avuto, di capire se avessi avuto la possibilità di continuare a praticare uno sport che mi piaceva. Per fortuna, quando ho deciso di smettere all’età di 35 anni, l’allora direttore sportivo del Quiliano Cavo mi ha offerto subito la juniores che, come ricordato, ho guidato per due anni prima della chiamata di Landucci al Valleggia.»

Fabio Musso con un trofeo e in versione portiere

Quali sono, tra i tuoi maestri e allenatori, quelli a cui senti di dover dire maggiormente «grazie»?

«La cosa bella del calcio è che se si è capaci di trovare il positivo in tutti si riesce a “succhiare” qualcosa da tutti. È chiaro che vi sono persone che, per lunghezza di rapporto, hanno un peso maggiore rispetto ad altre. Sicuramente un’importanza fondamentale l’ha avuta Massimo Becco, che ho seguito anche nella sua esperienza come allenatore allo Speranza, ma ricordo volentieri anche Leandro Pansera e i tecnici che ho avuto al Portovado e al Pallare, rispettivamente Renato Manunta e Mirco Bagnasco: tutti mi hanno dato qualcosa di importante da mettere sul campo una volta che sarei diventato allenatore.»

DAI SUCCESSI AL DOLORE, UNA SCUOLA DI VITA

E quali invece i momenti che hanno rappresentato le tappe fondamentali della tua carriera?

«Da calciatore, sicuramente la soddisfazione di portare il Quiliano in Promozione con una squadra di giocatori dello stesso comprensorio (quilianesi, vadesi, valleggini) che ci davano una connotazione importante. Noi abbiamo giocato per tanti anni con gli spalti del Picasso pieni, era un piacere essere riconosciuti in giro e vedere così tanta gente al campo; anche perché, quando andavamo in trasferta, ci rendevamo conto che non era così dappertutto. Mi ricordo benissimo tutto di quel periodo anche perché avevo i capelli che mi arrivavano a metà schiena e, al ritorno dallo spareggio decisivo, i compagni mi avevano messo su una sedia in mezzo al campo di Quiliano; l’allora capitano Chicco Ferraro, per una scommessa fatta, mi aveva rasato a zero con una macchinetta. Un po’ come successo a Camoranesi dopo la vittoria dei Mondiali 2006, con la differenza che Oddo si è limitato a tagliargli il codino mentre Chicco mi ha fatto la pelata completa. Tra i ricordi amari ma che, comunque, mi hanno fatto crescere vi è invece la retrocessione in Terza Categoria con il Portovado: nonostante avessi solo 18 anni mi si erano poste davanti delle responsabilità che avevo accettato di assumermi decidendo di rimanere anche nella categoria inferiore. Un gesto per il quale mister Manunta mi aveva premiato con la fascia di capitano l’anno successivo. Di quegli anni, però, i veri successi li ricordo nelle relazioni interpersonali: i rapporti che si erano creati a Quiliano tra i compagni erano veri, di amicizia profonda.»

Per non dire dei festeggiamenti per il salto in Promozione…

«Fantastici. A bordo di un furgone scoperto, con il capitano alla guida e il resto della squadra sul cassone, abbiamo fatto un giro per le vie di Quiliano con la gente affacciata dalle finestre ad applaudirci. È stato questo il segno più tangibile del fatto che fossimo una squadra in cui i tifosi si identificavano, avendoci visti fin da bambini.»

Una formazione storica del Quiliano, Fabio Musso, ancora giocava

QUILIANO UN AMBIENTE PARTICOLARE

Qual è, a tuo avviso, il segreto dell’ambiente di Quiliano?

«Il fatto di essere ancora un paese che vive da paese, con punti ancora oggi molto certi. Anche se non abito più a Quiliano da tanti anni, sono sicuro che se ho bisogno di trascorrere mezz’ora in compagnia so dove andare a trovare le persone: una condizione che in altri paesi, e soprattutto in città, non è riscontrabile.»

Così come questo forte legame con il calcio…

«Indubbiamente. Il Quiliano ha conosciuto anni di grande struttura societaria con tutte le squadre giovanili, nelle quali giocavano tantissimi ragazzi, e per moltissimi anni ha avuto la doppia squadra, fatto non comune per un paese di 7.000 abitanti. Anche questo è un segno di grande vicinanza verso questo sport.»

Il Valleggia, una squadra dai grandi risultati emotivi e sportivi, per Fabio Musso: un esempio di amicizia e di valori

L’EVOLUZIONE: DAL CAMPO ALLA PANCHINA

Tornando a te: il passaggio dal campo alla panchina è avvenuto in maniera naturale oppure, dentro, ti sentivi ancora un calciatore?

«Si è trattato sostanzialmente di un fatto naturale. Anzitutto perché cominciavo a essere vecchio e ad avere mal di schiena, ma anche la squadra storica si stava smantellando per ragioni anagrafiche. E soprattutto perché c’è stata l’occasione: non avevo ancora deciso se continuare ancora per un anno per fare un po’ da “chioccia” alle nuove leve quando Cavo, il direttore sportivo di allora, mi ha chiesto se avessi piacere di prendere la juniores. È stata questa la circostanza che mi ha fatto decidere senza avere grossi rimpianti. Ho preso un gruppo di giovani, parecchi dei quali mi hanno poi seguito al Valleggia e hanno costituito lo zoccolo duro del mio percorso. Ma molto ha contribuito, e molto contribuisce ancora, il fatto di aver lavorato dall’età di vent’anni come educatore di adolescenti e, quindi, di avere già le chiavi per entrare nella testa e nel cuore delle persone e costruire qualcosa di positivo. Quella alla juniores è stata una bella esperienza anche se, per due anni, abbiamo mancato per un soffio la vittoria in campionato: probabilmente la responsabilità è stata anche un po’ mia perché ero alle primissime armi, con un pizzico di esperienza sarei riuscito a dare ai ragazzi qualcosina di più per arrivare all’obiettivo massimo. Però il fatto che la quasi totalità dei giocatori abbia deciso di seguirmi al Valleggia e trascorrere sette anni insieme a me mi ha convinto che, forse, avevo dato loro qualcosa in meno calcisticamente ma molto a livello umano. E ne sono stato ripagato. Anche se adesso non faccio più l’educatore perché ho cambiato lavoro, in veste di allenatore della Veloce continuo a fare ciò per cui forse sono più portato e che sicuramente mi piace di più: lavorare con i ragazzi.»

FRA QUILIANO E VALLEGGIA NESSUNA RIVALITÀ

Considerando che, in fondo, la rivalità tra Quiliano e Valleggia non è mai stata tale nel vero senso della parola…

«A Quiliano il campanilismo si è sempre sentito fino a un certo punto perché le categorie erano molto distanti: il Valleggia ha sempre navigato tra Seconda e Terza Categoria mentre il Quiliano è riuscito ad arrivare in Promozione. Non c’è mai stata l’idea del “derby” come, ad esempio, tra Quiliano e Zinola (il più sentito quando giocavo io) o tra Quiliano e Legino. Il Valleggia è sempre stato visto in paese come la costola del calcio, di livello più basso, ma mai come una condizione di cui vergognarsi: è una società vera, che vive dei propri denari svolgendo attività di promozione di calcio. Il presidente Francesco Landucci, parallelamente alla prima squadra del Valleggia e alla vita agonistica del Quiliano, ha sempre realizzato progetti di varia natura come i tornei amatoriali al campo Dagnino o a Valleggia e vari tornei al palazzetto, oltre ad aver attivato per alcuni anni una squadra di calcio femminile partecipante al campionato a 7. Insomma, si è sempre andati d’amore e d’accordo. Di tutti gli anni in cui ho giocato nel Quiliano ricordo di aver disputato una sola partita ufficiale contro il Valleggia, in Coppa Liguria, sommata a molte amichevoli alle quali le due squadre si invitavano a vicenda. Ma, ripeto, non erano mai gare combattute.»

Il Valleggia, un grande amore

IL PIACERE DEL PALLONE, DENTRO E FUORI DAL CAMPO

Non a caso lo storico presidente del Valleggia era solito dire: «La Seconda Categoria è la nostra Serie A»…

«E sotto la mia guida, per due anni di fila, ha rischiato di andare in… Champions League, ovvero in Prima Categoria. Nel 2016, dopo aver superato il Borghetto nella semifinale dei play-off, siamo stati battuti in finale dalla Sanstevese: non è mancato un pizzico di rimpianto per via di un gol annullato, ma va detto che la sconfitta ci stava perché gli avversari erano nettamente più forti. L’anno successivo, giunti ai play-off da secondi dopo aver perso l’ultima partita di campionato contro il San Bartolomeo dell’ex capitano del Vado Roberto Iannolo, abbiamo ceduto ai supplementari nello spareggio contro il Sanremo ‘80. Tuttavia, il rapporto e la vicinanza che sono rimasti con i ragazzi, il presidente Landucci e il dirigente Brondo non permette di lasciare spazio a grossi rimpianti. Certo, ripensando alla partita con il Sanremo ‘80 un po’ di amarezza resta; ma svanisce presto, talmente tanti sono i momenti positivi che si ricordano con piacere. Noi eravamo un gruppo di amici che giocavano a pallone per divertirsi; tant’è vero che nei sette anni della mia gestione nessuno al Valleggia, compreso il sottoscritto, ha mai percepito un centesimo di rimborso. Il collante non erano i soldi, ma il clima che si respirava nel disputare quel tipo di campionato e nel vivere quel tipo di gruppo, la vera peculiarità di quel percorso che non è così facile ritrovare. In quel periodo sono giunti da noi anche giocatori affermati, ma nel momento in cui arrivavano sapevano già che cosa avrebbero potuto trovare. E di sicuro non erano i soldi.»

 Che cos’era, allora?

«Il divertimento, le serate, la vita al di fuori del campo come un gruppo molto coeso. Un’occasione per trascorrere la vita sportiva come vero supporto della vita quotidiana: dopo il lavoro e i nervosismi che esso comportava, i due allenamenti alla settimana rappresentavano il momento in cui ci si rilassava. Sono tanti i momenti belli da ricordare: partite decisive per la salvezza, una trasferta sul campo della Nolese, un incontro a Murialdo. Ma soprattutto, un episodio relativo a una gara disputata ad Albenga: non eravamo usciti dalla nostra metà campo più di una volta per tempo quando, a un certo punto, l’arbitro concede un rigore inesistente ai padroni di casa. Ebbene, il giocatore dell’Albenga si alza e va a dire all’arbitro: «Non è rigore, sono caduto da solo». Siamo riusciti a pareggiare ed è stato davvero un risultato epico. E ancora, molto bella la già citata semifinale dei play-off a Borghetto vinta negli ultimi minuti grazie a un gol di Walter Briata. Qualche tempo fa, mettendo a posto alcune cartelle sul computer, mi è saltato all’occhio che 12 ragazzi partiti in Terza Categoria erano nella rosa che aveva disputato lo spareggio per la promozione in Prima Categoria: ulteriore dimostrazione di un percorso sportivo, oltre che di vita, percorso tutti insieme. Uno di questi giocatori, Russo, è titolare inamovibile del Quiliano attuale; ed è un piacere vederlo giocare.»

Euforia, il piacere di stare assieme al di là dei risultati: una lezione importante del gioco del calcio per Fabio Musso

Q&V SCELTA SOFFERTA, UN TRAUMA ANDARE ALLA VELOCE

 Come è stato per te il passaggio “dall’altra parte del ponte” in concomitanza con l’approdo sulla panchina della Veloce?

«Devo dirlo, è stato traumatico. Perché nel frattempo i ragazzi che ho allenato in nove anni – sette più due di juniores – erano diventati miei amici, persone con cui mi piaceva trascorrere il tempo libero. Per questa ragione non ho mai voluto un ruolo nel nuovo sodalizio Quiliano&Valleggia in quanto non ho mai accettato i motivi che hanno portato Scappatura e Ferraro – rispettivamente presidente e dirigente del Valleggia – a fondere le due società, mentre invece capivo le motivazioni del Quiliano. Io avrei perseguito una strada affinché le due realtà calcistiche potessero trovare, come mi auguravo, momenti di comunione d’intenti più frequenti continuando però a offrire al paese due opportunità: quella più agonistica, tipica del Quiliano, e quella più votata al sociale che ha sempre caratterizzato il Valleggia. Essendo in minoranza mi sono rimesso alle decisioni altrui ma, dopo quello che il Valleggia aveva significato per me e quello che, forse, io avevo significato per il Valleggia, non mi sono sentito di intraprendere quel percorso. Mi sono guardato un po’ intorno e quando la Veloce del presidente Viti ha proposto a me e al mio amico e compagno di percorso Rino Ceraolo di occuparmi degli Allievi regionali, ho deciso di accettare per cercare di far crescere la leva del 2001. Ho trovato un ambiente positivo e uno splendido dirigente quale Gabriele Cavallini, purtroppo scomparso a Natale del 2019, che mi ha coccolato e mi ha fatto sentire a casa. Anche lì, partendo con una squadra che non godeva di grossa considerazione e arrivando a chiudere, con il lockdown, un campionato juniores che stavamo portando avanti con grande successo, la mia soddisfazione è costituita dal fatto che oggi la Veloce ha in prima squadra otto ragazzi del 2001 cresciuti da me. Con l’arrivo nella juniores della Veloce di nuove leve cresciuti da altri allenatori, ho ritenuto che avesse più senso dare a questi tecnici la possibilità di continuare il percorso iniziato e quindi ho accettato la proposta del presidente del settore giovanile Sanguineti di ricominciare dagli Allievi per provare ad avviare un nuovo ciclo con un altro gruppo di giovanissimi. I presupposti ci sono perché i ragazzi mi sembrano sulla buona strada per raggiungere quella che è la mia priorità: fare gruppo, divertirsi e impegnarsi. Tutto il resto, dai risultati ai successi, sono una diretta conseguenza ma non sono la priorità.»

IL CALCIO? INSEGNARE, EDUCARE, STARE ASSIEME

Per concludere, Fabio: dopo tanti anni nel calcio fra campo e panchina, che cosa rappresenta ancora per te questo sport?

«Uno strumento di aggregazione basato su una passione che molti ragazzi hanno ed estremamente funzionante. Perché offre la possibilità di avere tanti momenti in cui stare insieme, insegnare ed educare alla vittoria come alla sconfitta. Certo, in questo maremoto di calcio in televisione si è un po’ perso l’aspetto più romantico di questo sport, meno prestazionale anche nei rapporti: io ricordo allenatori che forse non erano particolarmente preparati, ma si basavano sullo spirito di squadra, sul modo di affrontare lo sport allo stesso modo della vita. Adesso è tutto più difficile, quando tra gli Allievi sento parlare di 4-4-2 o 4-3-3 rabbrividisco. Ripeto, il grande pregio del calcio è quello di essere visto in miliardi di modi diversi da chi lo fa e da chi lo promuove. Io non ho nessuna ambizione di pensare che il mio sia quello più giusto e più corretto; però mi ha dato e continua darmi tante soddisfazioni, soprattutto sotto l’aspetto umano. Per cui continuerò in questo modo, non vedo perché dovrei metterlo in discussione.»

 

 

 

 

Boris Carta

Di