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LE PASSIONI TRISTI

“L’epoca delle passioni tristi,” questo il titolo del libro scritto a quattro mani da Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista e Gerard Schmitt, psicoanalista e terapeuta della famiglia, nonché professore di psichiatria infantile e dell’adolescenza presso la facoltà di medicina di Reims (in Italia è edito anche dai Saggi dell’Economica Feltrinelli). LUCA NONNE Miguel Benasayag e […]

“L’epoca delle passioni tristi,” questo il titolo del libro scritto a quattro mani da Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista e Gerard Schmitt, psicoanalista e terapeuta della famiglia, nonché professore di psichiatria infantile e dell’adolescenza presso la facoltà di medicina di Reims (in Italia è edito anche dai Saggi dell’Economica Feltrinelli).

LUCA NONNE

Miguel Benasayag e Gerard Schmitt nella loro analisi prendono in considerazione tutti gli snodi fondamentali delle cause del disagio odierno, in particolare focalizzandosi sulla condizione giovanile.

Il nostro tempo è segnato da un profondo crollo della fiducia nel progresso e nel futuro, che era motore della modernità, dicono gli autori. Il positivismo, fondato sull’idea che grazie alla scienza e alla ragione l’essere umano sarebbe arrivato a conoscere ogni aspetto della vita e a risolvere ogni problema dell’umanità, fin la possibilità di prevedere anche gli eventi futuri, è caduto sotto i colpi delle due guerre mondiali e alla convinzione che il progresso non garantisce una condizione di felicità assoluta e di capacità di controllo per l’uomo. Questo lo vediamo nelle molte crisi del mondo contemporaneo: crisi economiche, diseguaglianze sociali, crisi ambientali. Il futuro, visto come promessa partendo dalla tradizione cristiana e poi illuministica, è divenuto una minaccia. A tal proposito viene citato anche il filosofo Edmund Husserl fondatore della fenomenologia: “Nei momenti di disperazione della nostra vita — come si ode ovunque — questa scienza non ha nulla da dirci. Le questioni che la scienza esclude per principio sono proprio le questioni scottanti nella nostra infelice epoca per un’umanità abbandonata agli sconvolgimenti del destino: sono le questioni che riguardano il senso o l’assenza di senso dell’esistenza umana in generale”

Il libro recensito da Luca Nonne

Nel libro viene trattato come questo cambio di rotta ha delle ovvie ripercussioni in molti aspetti della vita e delle strutture sociali. Anche l’educazione, scolastica e famigliare, non potendo garantire la promessa di un avvenire migliore attraverso l’impegno personale, non può che trasformarsi in un’educazione alla minaccia, educare al pericolo del futuro: non trovare lavoro, non potersi integrare attivamente nella società. Non ci possiamo più concedere il lusso di un’educazione fondata sul desiderio, che pur sarebbe fondamentale, come insegnava anche Freud, come stimolo fondamentale per la crescita, scrivono gli autori. In questo scenario quindi, ogni sapere deve servire a qualcosa, si genera una gerarchia implicita di insegnamenti utili e non utili. L’utilitarismo diventa così la base dell’ educazione, ma come i dati sull’abbandono scolastico confermano, non è sufficiente a retro agire come stimolo, demotivati (i giovani) anche dalla consapevolezza di quanto oggi sia incerto il futuro.

 

Sempre più aspetti della vita sociale, sottolineano, tra cui non solo l’educazione ma anche la prassi terapeutica, stanno prendendo come direzione quella dell’efficientismo. In molti casi viene data importanza non tanto a capire le cause profonde del disagio del paziente, i cui problemi individuali spesso sono riconducibili a questioni sociali che interessano tutti, ma a risolvere il sintomo che il paziente presenta, in modo che possa tornare ad essere socialmente “funzionale” e produttivo nei modi culturalmente richiesti dalla propria società.

L’odierna società neo-liberale infatti ha come valori l’individualismo, la competizione, la prestazione. Ognuno (a differenza della modernità in cui vi erano ancora degli appigli esistenziali quali il welfare, le ideologie politiche ecc.) deve essere capace di costruire la propria identità, e deve essere performante. Per emergere deve diventare lupo per gli altri uomini, prendendo in prestito le parole di Hobbes, che porta inevitabilmente alla frammentazione sociale e all’isolamento, e una terapia basata solo sui farmaci può attenuare gli effetti ma non le cause.

Ecco che allora Benasayag e Schmitt parlano di una “direzione della cura” dove la libertà non viene più intesa come un essere libero dagli altri e dagli oneri sociali (dove l’individuo senza solidi legami può creare se stesso in una modalità che è funzionale in realtà solo al mercato) come vorrebbe una certa corrente post-moderna, ma la libertà è libertà dall’ isolamento, si è liberi in virtù dei legali che sappiamo instaurare in società. Legami culturali, sociali, famigliari, che aiutano a tappare i buchi dell’assenza di senso e sopportare il peso della minaccia.

I terapeuti quindi, concludono, hanno il compito di guidare il paziente nell’instaurare questi legami; devono saper leggere fra le righe, cogliere il nesso fra tutte quelle forme di malessere che spesso sono solo un sintomo di un problema comune, e di guidare i ragazzi in una direzione che va controcorrente rispetto ai valori velleitari della società moderna, attraverso un percorso che ricongiunge l’individuo alla società, e il benessere ai legami che questo è capace di saldare all’interno di questa.

 

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