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DAVI, UNA VITA DA MEDIANO

Una vita da mediano. Non si tratta ovviamente dell’Oriali cantato da Ligabue, ma le doti tecniche di Franco Davi, altro grande protagonista del periodo d’oro del calcio quilianese, rispondevano pienamente a quanto richiesto da un ruolo oscuro quanto fondamentale per gli equilibri di ogni squadra. BORIS CARTA «Senz’altro: la corsa e l’agonismo erano le mie […]

Una vita da mediano. Non si tratta ovviamente dell’Oriali cantato da Ligabue, ma le doti tecniche di Franco Davi, altro grande protagonista del periodo d’oro del calcio quilianese, rispondevano pienamente a quanto richiesto da un ruolo oscuro quanto fondamentale per gli equilibri di ogni squadra.

BORIS CARTA

«Senz’altro: la corsa e l’agonismo erano le mie armi migliori, così come la voglia di lottare per 90 minuti e il non essere mai disposto a perdere facevano da sprone non solo a me ma anche a tutti i miei compagni nei momenti di difficoltà. Giocando poi per tanti anni con gente tecnicamente superiore, è chiaro che qualcosina ho rubato un po’ a tutti e mi sono raffinato».

D’altronde, in quella squadra, nessuno voleva mai perdere. E infatti vinceva quasi sempre…

«Assolutamente. Eravamo attaccatissimi alla maglia e ai colori, ma soprattutto eravamo una grande compagnia di amici che si frequentavano anche fuori dagli allenamenti e dalle partite. Si era creato un bellissimo ambiente e con esso, insieme all’ulteriore alleato rappresentato dal pubblico, sono arrivati di conseguenza anche i risultati».

Ora, però, ripartiamo dall’inizio: come e quando sono nati la tua passione per il calcio e il tuo desiderio di praticarlo?

«All’età di 12-13 anni, quando il Vado si era trasferito a giocare a Quiliano poiché il vecchio campo vadese era stato eliminato per far posto alla centrale Enel. Sono entrato nel settore giovanile del Vado, in cui sono rimasto fino a 19 anni arrivando anche a esordire in prima squadra. Susseguentemente all’anno in cui ho svolto il servizio militare sono passato alla Carcarese, nelle cui file ho militato per sei stagioni. Terminata l’esperienza a Carcare ho giocato per due anni nel campionato Interregionale con la maglia dell’Albenga prima di tornare nella mia Quiliano per concludere la carriera».

Chi sono stati i tuoi principali maestri calcistici?

«Anzitutto il vecchio Romualdo Chittolina: un maestro di vita oltre che un allenatore, un uomo disposto a tutto per i ragazzi del settore giovanile. Quindi il compianto Giancarlo Tonoli, che mi ha fatto esordire nella prima squadra del Vado e che ho poi ritrovato alla Carcarese. Ad Albenga mi ha invece guidato Elvio Fontana, già tecnico della Sanremese in Serie D e C2. Infine, a Quiliano, ricordo con grande piacere Luciano Rossi e il povero Antonio Marcolini, che ci ha lasciati prematuramente e in modo tragico. Aggiungo questo: io e Antonio eravamo stati compagni di squadra all’Albenga per due anni raggiungendo, nella stagione 1983-84, un ottimo terzo posto nel girone A del campionato Interregionale a pari merito con il Cuneo, a 5 punti da Pro Vercelli e Cairese che si contesero la promozione in C2 nello spareggio di Alessandria vinto poi dai piemontesi. Un risultato abbastanza insperato per quei tempi».

E visto che hai citato la Cairese, non si può negare come il tuo arrivo a Carcare sia coinciso con il periodo dell’ascesa del calcio valbormidese E dei derbies infuocati tra biancorossi e gialloblu…

«Io sono approdato alla Carcarese sotto la presidenza di Arnaldo Pastorino, un uomo ambizioso e appassionato al pari del collega cairese Cesare Brin, che avrebbe condotto la sua squadra addirittura alla C2. Sono stati anni molto intensi, la rivalità era sentitissima: un pubblico incredibile, inimmaginabile per i giorni nostri a livello dilettantistico. Direi migliaia di persone, non saprei quantificarle con esattezza: ricordo solo che gli spalti erano sempre gremitissimi».

Avendo vissuto sia la sfida tra Carcarese e Cairese che quella tra Quiliano e Zinola, quale ritieni fosse la più sentita?

«Bella lotta, perché le erano entrambe. Negli anni in cui ho giocato a Quiliano la realtà calcistica di Zinola era venuta fuori prepotentemente; e vista la brevissima distanza che separa le due località, era inevitabile che la passione coinvolgesse un vasto pubblico. Ho avuto la fortuna di arrivare nel Quiliano e vincere subito il campionato di Seconda Categoria: la gente ci seguiva ovunque, in Valbormida come in Riviera, in pullman come in auto. Ma la trasferta a Zinola rappresentava il clou: era sempre molto accesa, a volte anche fin troppo».

Stavo ripensando a quando, all’inizio dell’intervista, hai affermato di aver “rubato” tecnicamente qualcosa da diversi dei tuoi compagni. Ecco, da chi pensi di aver ricevuto di più, sotto ogni aspetto, da coloro con cui hai giocato?

«Sicuramente da Antonio Marcolini, che per me era come un fratello maggiore: oltre che un grande bomber era un giocatore che agonisticamente dava tutto per la squadra, un autentico leader dello spogliatoio. Ci vedevamo spesso, dato che lui abitava a Savona; e anche fuori dal campo era una persona straordinaria. A Quiliano, invece, avevo trovato un gruppo già affiatato di ottimi ragazzi che, magari, non provenivano da un settore giovanile ma avevano sempre giocato per la squadra del paese. In seguito, con l’arrivo di gente come Flavio Camici, Massimo Becco e altri giocatori di categoria superiore, questo gruppo si è ulteriormente cementato e i risultati si sono visti. Oggi, nonostante ci si incontri più raramente rispetto a una volta, siamo rimasti in ottimi rapporti. E ogni tanto ci scambiamo qualche vecchia foto per ricordare quei bei tempi».

Personaggi di un altro calcio, graffiti di un altro mondo che non si finisce mai di rimpiangere…

«Un altro… tutto. Noi giocavamo su campi in terra battuta, con la neve e con il gelo. Il pubblico aspettava solo la domenica per assistere a queste sfide e nel resto della settimana al bar non si discuteva d’altro. Oggi, e purtroppo non da oggi, non è più così. Purtroppo».

Nonostante tutto o quasi sia cambiato, Quiliano mantiene comunque un solido legame con il calcio…

«Direi di sì. Io, per problemi di vario genere, non sono più un sostenitore assiduo, ma seguo il calcio sui giornali e alla radio. Ed effettivamente il paese continua a nutrire nei confronti della squadra un attaccamento che non credo abbia molti riscontri nei piccoli paesi del comprensorio. Forse solo in qualche paesino della Valbormida si potrà ancora trovare un pubblico affezionato come quello quilianese. Gli stessi ragazzini, dopo essere cresciuti nei settori giovanili di altre squadre, hanno voglia e piacere di tornare al Quiliano per giocare nella prima squadra».

Una filosofia che sembra calzare a pennello con lo spirito del Quiliano&Valleggia…

«Ne sono convinto, ed è una realtà che mi fa immensamente piacere. Io ero rimasto alla rivalità tra Quiliano e Valleggia, tra il capoluogo e la frazione, e ritengo che unire le due forze sia stata la scelta più giusta in quanto il panorama del calcio dilettantistico attuale non permette di fare troppi sogni. La creazione di un’unica società è stata, a mio avviso, una cosa utile per tutto il paese».

Del resto, per quanto sentita, quella con un sodalizio presieduto da Francesco Landucci poteva essere considerata rivalità fino a un certo punto in quanto imprescindibile dal rispetto…

«Credo che Francesco Landucci abbia lasciato un segno molto profondo in Quiliano intesa come comune. Perché, oltre a essere una persona calcisticamente competente, era molto legato al sociale: per lui il calcio era una missione che doveva far sentire tutti uniti. Ed è stato lui una delle persone che più si sono battute per arrivare a questa fusione, la sua figura è stata fondamentale in tal senso».


Tornando invece a te: il dopo-calcio è stato sofferto oppure è arrivato in maniera naturale?  

«Sofferto ti dico di no. Anzi, è stata una decisione serena: ho smesso di giocare quando mi sono accorto che prendere la borsa e andare la sera a fare l’allenamento cominciava un pochino a pesarmi. Dopo il ritiro sono stato per due anni ai margini del calcio, nel senso che non ho fatto né l’allenatore né il dirigente: seguivo il Quiliano, guardavo le partite, ma non sentivo la necessità di ricoprire un ruolo attivo. Successivamente, quando la passione è riaffiorata, ho cominciato ad allenare a livello di settore giovanile nel Vado e nel Savona. Dopodiché sono tornato a Quiliano: prima allenando i ragazzini e poi, per molti anni, in qualità di dirigente un po’ a tutti i livelli, dal settore giovanile alla prima squadra. Non solo: ho fatto anche l’allenatore della prima squadra del Quiliano per un breve periodo. Breve, ma intenso e appassionato».

Per concludere, Franco: che cosa rappresenta ancora il calcio per te?  

«Devo essere sincero: se conosco e sono in amicizia con tanta gente è perché il calcio mi ha dato questa possibilità. Ancora adesso mi capita di incontrare per strada persone che mi salutano e, magari, di non riconoscerle sul momento. Oltre che a Quiliano mi ricordano ancora in tanti a Carcare, a Vado, a Savona… Insomma, il calcio mi ha inserito nella vita sociale non solamente di un paese ma di un mondo. Che purtroppo, come ho già detto, non è più quello di un tempo».

Ma che è sempre piacevole da ricordare…  

«Sicuramente. Tant’è vero che ogni tanto mi viene voglia di tirare fuori tutte le foto che ho a casa e di riguardarmi, di vedere com’ero e come eravamo. Anche, o forse soprattutto, fisicamente».

Franco Davi è l’ultimo in piedi da sinistra (alla sua destra, con la fascia di capitano, è Massimo Becco, mentre ad aprire la fila in piedi è l’allenatore Antonio Marcolini).

 

 

 

 

 

 

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