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GERRY: UN DS È PER SEMPRE

Mauro Giusto, per tutti «Gerry», classe 1956, è stato uno degli uomini – anzi, ragazzi – della prima ora del Quiliano risorto alla fine degli anni ‘70. Direttore sportivo del sodalizio biancorosso ininterrottamente fino al 1995 e quindi, dopo un anno di pausa, dal 1997 al 2004, diversamente da molti “colleghi” non è però passato […]

Mauro Giusto, per tutti «Gerry», classe 1956, è stato uno degli uomini – anzi, ragazzi – della prima ora del Quiliano risorto alla fine degli anni ‘70. Direttore sportivo del sodalizio biancorosso ininterrottamente fino al 1995 e quindi, dopo un anno di pausa, dal 1997 al 2004, diversamente da molti “colleghi” non è però passato dal campo alla scrivania. Lui stesso ne spiega le motivazioni: «Se si fa eccezione per le cosiddette partite tra scapoli e ammogliati non sono mai stato tesserato calcisticamente come atleta per nessuna squadra. Mi piaceva giocare, questo sì, ma ho preso altre strade.»

Pur provenendo da una famiglia calciofila…

«Quello senz’altro. È stato mio nonno a portarmi per la prima volta allo stadio quand’ero ragazzino ed è stato sempre lui a inculcarmi la passione per la Juventus, la squadra per la quale faccio il tifo. Mio papà è invece interista, per cui non voglio scendere nei dettagli di ciò che succede in casa mia durante certe partite: nonostante abbia 97 anni è un peperino, molto lucido e appassionato. E discutiamo ancora spesso.»

Dunque, calcio passione da sempre…

«Assolutamente sì, mentre la passione per il Quiliano è invece arrivata dopo. L’inizio degli anni ‘60 è coinciso con il periodo finale di un Quiliano dalla storia ben precisa, caratterizzato dei derbies contro il Savona con due-tremila persone sugli spalti di cui mi hanno sempre raccontato. Da allora, per diversi anni, non se n’era fatto più niente: il Vado, che aveva problemi con il suo campo ed era in attesa della costruzione di quello nuovo, gravitava sul nostro terreno e così io andavo a vedere le partite dei rossoblu, sia delle giovanili che della prima squadra. Alla fine degli anni ‘70 facevo parte di quel gruppo di ragazzi che frequentavano il mitico Club Sportivi Quilianesi e una sera d’inverno, trovandosi a parlare di calcio maggiore ma anche minore, si sono detti: “Ma perché non proviamo a creare una squadra di calcio?”. Già qualche anno prima avevamo cominciato a partecipare, insieme ad alcuni nostri amici tesserati per altre squadre, a vari tornei estivi a quei tempi molto in auge come quello di Vado e del Sacro Cuore di Savona, ma anche in Valbormida. Da lì abbiamo avuto l’idea di fare qualche cosa anche d’inverno e così, nel lontano 1979, ci siamo iscritti al campionato di Terza Categoria come Club Sportivi Quilianesi: i nostri colori sociali erano rigorosamente il rosso e il blu perché erano quelli del Club. La rinascita del calcio a Quiliano è iniziata da lì. E da lì è partita una trafila piacevole e molto soddisfacente.»

Quali sono state le difficoltà maggiori che avete dovuto affrontare nel ricreare un ambiente in grado di riaccendere la passione sportiva di un paese notoriamente legatissimo al calcio?

«La difficoltà principale ha riguardato l’aspetto economico. All’inizio non ci vogliono molti soldi, ma per creare un qualcosa partendo da zero ne occorrono comunque: l’iscrizione al campionato, gli interventi necessari per dotarsi di strutture adeguate e, naturalmente, la costruzione della squadra: se alcuni giocatori che non erano in attività avevano accettato senza problemi di giocare con noi, altri abbiamo dovuto prelevarli da varie società e non sempre con costi vicini allo zero. Venivamo tutti da una passione calcistica ma non avevamo alcuna esperienza, pertanto non sapevamo bene come rapportarci con il mondo del calcio giocato a livello federale e con l’organizzazione dei tesseramenti e delle trasferte. La prima stagione è stata molto, per così dire, ruspante: il campionato di Terza Categoria di allora comportava trasferte abbastanza vicine, ma noi andavamo a giocare anche ad Albenga e nell’Imperiese, e si trattava già di impegni di una certa importanza. Di conseguenza ci dovevamo trovare con i giusti tempi e rispettare tutta una serie di regole: non eravamo un’armata Brancaleone, ma una squadra che doveva presentarsi dignitosamente per poter disputare la partita. Insomma, ognuno di noi ha dovuto imparare qualche cosa che non sapeva. Ma piano piano, talvolta battendoci anche la testa, siamo riusciti a sopperire a tutto.»

E avete bruciato le tappe, direi…

«Già l’anno successivo avevamo assunto la denominazione di Quiliano Calcio e tre anni dopo saremmo diventati Polisportiva Quiliano Calcio: questo perché nel frattempo stavano nascendo il Palasport e varie strutture, mentre altre discipline che fiorivano in quel momento come pallavolo e ginnastica venivano raggruppate in quella polisportiva, della quale noi eravamo un ramo. Quindi abbiamo cambiato i colori sociali prendendo quelli del paese – il bianco e il rosso, che abbiamo sempre mantenuto – e, soprattutto, abbiamo dato il via alla nostra avventura “seria”: non più un discorso amatoriale, ma con un obbiettivo ben preciso dal punto di vista del risultato. De Coubertin l’abbiamo “seppellito” dopo pochi mesi, per noi partecipare era un obbiettivo e non lo era. Certo, fin dall’inizio abbiamo lavorato sul settore giovanile con tutte le difficoltà che comportava. Ma a noi interessava essere competitivi, ciò che ci piaceva era giocare per vincere; tant’è vero che nello spazio di pochi anni abbiamo raggiunto la Prima Categoria e lì ci siamo attestati saldamente. In seguito abbiamo proseguito con alterne fortune, anche perché c’era da tenere d’occhio il bilancio: non avendo mai avuto un presidente magnate ci autotassavamo e usufruivamo di sovvenzioni comunali e sponsor. Ma siamo sempre andati avanti bene e, al termine della stagione 1990-91, siamo approdati in Promozione. Purtroppo siamo retrocessi perdendo ai tempi supplementari lo spareggio con la Culmv Genova pur avendo totalizzato 27 punti, cifra che nei campionati precedenti era sufficiente a garantire la salvezza.»

Tuttavia l’occasione del riscatto non ha tardato a ripresentarsi…

«Infatti. Dopo alcune fasi alterne siamo tornati in Promozione e, nel 2011-12, siamo addirittura saliti in Eccellenza grazie a un doppio salto di categoria. Era una società che aveva conosciuto alcune ristrutturazioni: il gruppo storico della vecchia guardia – il sottoscritto, lo storico presidente Fulvio Moirano, Michele Salinas, Ennio Scappatura, Massimo Becco – è andato pian piano scemando, anche a causa di un certo affaticamento che alla lunga inevitabilmente sopraggiunge. Noi abbiamo trascorso una ventina d’anni durante i quali in inverno non pensavamo ad altro che al Quiliano. Prima si studiava il da farsi, durante la settimana si pensava agli allenamenti, quindi, nei week end, ci si dedicava anima e corpo alla squadra: al sabato al settore giovanile e alla domenica alla prima squadra. Bei ricordi, tante soddisfazioni, qualche problema, alcune delusioni: nell’insieme, tutte cose che io personalmente rifarei dal primo minuto.»

Hai detto in precedenza: «Non abbiamo mai avuto un presidente magnate». Ma sicuramente avevate un presidente motivatore e animato da sincera passione…

«Il dottor Fulvio Moirano rappresenta una figura storica non solo a livello calcistico, ma anche a livello comunale. Una persona di assoluto riferimento per noi, un ragazzo simpaticissimo e in gambissima: insomma, uno di noi al cento per cento. Indubbiamente la carriera che ha fatto in seguito è esclusivamente merito suo ed esula da quello che è il paese di Quiliano, ma ciò che è stato nella sua vita lavorativa lo è stato anche per la comunità quilianese e per la sua squadra. Per noi, anche se sotto certi punti di vista non è una bella parola, era una sorta di guru: un accentratore positivissimo e un uomo di straordinario carisma. Bastava un suo accenno e qualsiasi problema era risolto.»

E poi c’eri tu nelle vesti di direttore sportivo. Quale stato d’animo hai provato al momento di assumere tale ruolo?

«Io ho cominciato facendo il dirigente accompagnatore. La figura del direttore sportivo inizialmente non esisteva in quanto a occuparsi di tutto ciò che riguardava l’organizzazione calcistica erano l’allenatore e il nostro gruppo di ragazzi che cercavano di tesserare i giocatori. È ovvio che anni trascorsi in giro per i campi fanno comprendere meglio ciò che può mancare e di cui si ha maggiormente bisogno per fare determinate cose. Ho svolto la mia carriera da direttore sportivo molto da autodidatta: pian piano ho imparato a muovermi nei meandri del calciomercato e ad allargare le mie conoscenze rapportandomi con i dirigenti delle altre squadre. A quei tempi non c’erano i cellulari, si telefonava a casa anche per prendere appuntamenti con i calciatori e discutere dei vari argomenti. Ed è così che io ho maturato la mia esperienza.»

 E quanta ne hai maturata…

«A Quiliano abbiamo avuto squadre veramente competitive che ci hanno permesso di disputare stagioni di altissimo livello. Quando siamo stati promossi dalla Seconda Categoria alla Prima disponevamo di una rosa straordinaria perché eravamo riusciti a portare a Quiliano i ragazzi quilianesi più famosi calcisticamente parlando: Davi e Camici, che negli anni precedenti avevano giocato in Eccellenza e Promozione con società blasonate come Vado, Carcarese e Albenga. Dopodiché siamo saliti per la prima volta in Promozione sotto la guida di Gino Ghigliazza concludendo il campionato al quarto posto dietro Imperia, Finale e Loanesi, compagini storicamente importantissime per il calcio regionale (l’Imperia, addirittura, vanta trascorsi in Serie C).»

In quale modo eravate riusciti a convincere quei giocatori a fare ritorno in paese?

«Avendo quasi trent’anni e vivendo la parte finale della loro carriera, avevano accettato di buon grado di venire a giocare con noi alle nostre condizioni. Che erano ben precise: come diceva sempre il dottor Moirano, soldi non ce ne sono. Non essendoci mai potuti permettere di avere il grande campione per il fatto di non poterci permettere di pagarlo, lavoravamo di fioretto per poterci assicurare giocatori bravi che non fossero motivati dal denaro ma da altri aspetti come l’attaccamento ai colori, il gruppo e l’amicizia: era tutto questo che ci portava a ottenere la maggior parte dei risultati.»

Ma qual è, davvero, il segreto di Quiliano sia dal punto di vista calcistico che da quello ambientale?

«Anzitutto il grande attaccamento alla società da parte nostra: ognuno di noi dirigenti la sentiva come una cosa propria in senso positivo. Poi la grande voglia di fare del volontariato, perché noi ci occupavamo di tutto: dal lavaggio delle maglie alla pulizia degli spogliatoi, dalla tracciatura del campo all’organizzazione delle trasferte mettendo a disposizione le nostre macchine personali. E, soprattutto, la selezione dei giocatori dal punto di vista umano oltre che calcistico. In tre parole: una grande famiglia.»

Dal 2017 la nuova realtà calcistica del paese si chiama Quiliano&Valleggia. Nonostante nel frattempo l’universo pallonaro sia profondamente cambiato a tutte le latitudini, sussistono a tuo avviso i presupposti per far rivivere a Quiliano una favola calcistica come quella di cui anche tu sei stato protagonista?

«Ti dico una cosa: quando noi abbiamo cominciato con il Quiliano, il Valleggia esisteva già e c’era anche il Cadibona. E ti assicuro che il derby Quiliano-Valleggia in Terza Categoria era sentitissimo. Poi, negli anni, non so se noi siamo stati più fortunati, più organizzati o più bravi: fatto sta che il Quiliano è salito di categoria, mentre il Valleggia è sempre rimasto tra la Terza e la Seconda. E il Cadibona è addirittura sparito.»

E qui tornano a riecheggiare le celebri parole dell’indimenticabile presidente del Valleggia Francesco Landucci: «La Seconda Categoria è la nostra Serie A»…  

«Francesco è stato veramente un grande. Senza nulla togliere ai suoi collaboratori, si può dire che quasi da solo abbia portato avanti il Valleggia, di cui era l’assoluta figura di riferimento. La sua era una passione autentica, quando diceva quella frase era perché ne aveva la piena consapevolezza. Mentre invece io dico da sempre che la Serie A del Quiliano è la Promozione, lo ripeto anche ai dirigenti attuali: noi dobbiamo, con i nostri mezzi e i nostri tempi, trovare il modo di assestarci in quella categoria. Perché un campionato di Promozione giocato a buon livello, con una classifica dignitosa, in cui lanciare i giovani del paese che hanno voglia con qualche inserimento di un certo tipo può far levare parecchie soddisfazioni. Andare in Promozione e rimanerci per sempre: ritengo che sia questo l’obbiettivo che la società si deve prefissare.»

Se poi dovesse arrivare qualcosa di più, tanto di guadagnato…

«Forse sarò banale, ma in Promozione si cominciano ad avere i segnalinee e si inizia a sconfinare oltre la provincia per andare a giocare contro squadre blasonate su campi come si deve. Come qualcuno ti ha già raccontato, quando noi eravamo in Terza e Seconda Categoria andavamo a giocare su campi veramente improponibili: d’inverno ci facevamo la doccia in locali che erano stalle, non ti dico che ci cambiavamo all’aperto ma quasi. Per carità, andava tutto bene: se lo facevamo era perché avevamo scelto di farlo. Però è indubbio che approdando in certe categorie si cominci a respirare aria di calcio vero.»

E poi, diciamolo. il concetto di rivalità tra le due anime calcistiche quilianesi è sempre stato abbastanza relativo, no?

«Personalmente, devo dire che io l’ho sempre vissuta in maniera molto sana: non c’era astio nei confronti dei “cugini” comunali, ma era ovvio che ognuno tirasse l’acqua al proprio mulino. Quando si era paventata l’ipotesi della fusione tra le due squadre io non ero più un dirigente del Quiliano, ma avevo assolutamente supportato questa idea. Mi era stato chiesto un parere e io avevo risposto: “Ragazzi, per avere due realtà che forse sono un po’ asfittiche e fanno fatica ad andare avanti è giusto costituirne una sola”. E nel momento in cui la fusione è avvenuta ne sono stato ben felice.»

Quali sono stati, secondo te, i risultati più rilevanti che il nuovo sodalizio ha prodotto in questi primi anni di attività?                                                                                  

«Il primo è stato quello di riportare interesse a livello comunale: la squadra attuale annovera molti giovani di Quiliano e questo non può che far piacere. Noi, nel periodo in cui eravamo più in auge, ne avevamo, sì, ma non tantissimi, perché quando si gioca a certi livelli occorre essere più lungimiranti e andare a pescare anche altrove. Nonostante il periodo segnato dall’emergenza Covid mi sento spesso con il presidente Giorgio Landucci, che ringrazio pubblicamente per quello che sta facendo: è stato un nostro grande calciatore e adesso si sta dimostrando un grande presidente. Una volta si era molto più “ruspanti”, anche per ciò che riguardava il discorso dei bilanci: la Federazione lasciava maggiore spazio e le cose si riuscivano a gestire con più tranquillità. Oggi è tutto più rigoroso: tra Federazione, Guardia di Finanza e organizzazione in generale, se non sei a posto economicamente non vai da nessuna parte. E Landucci, oltre a far quadrare bene i conti rispettando tutte le modalità richieste, ha dimostrato anche di saper fare calcio di buon livello. Detto della bella realtà che il Quiliano&Valleggia rappresenta sia dal punto di vista calcistico che societario, non si può non rivolgere un ringraziamento al Comune per le migliorie apportate al campo sportivo nel corso degli anni: dalla costruzione dei nuovi spogliatoi all’ammodernamento delle tribune, dal nuovo impianto di illuminazione al manto in erba sintetica che è un fiore all’occhiello per l’intera provincia. Non a caso, il nostro campo viene richiesto anche da altre squadre.»

Per concludere, Gerry: a distanza di anni, che cosa ti rimane di quella meravigliosa avventura?

«Una grande passione per il Quiliano Calcio, che seguo tuttora con apprensione: quando posso vado a vederlo al campo, altrimenti guardo sui social come sta andando la partita. Poi una grande passione per il calcio generale, ulteriormente accresciuta avendo gestito il Quiliano, che mi permette di riuscire a guardare la Serie A anche dal punto di vista interno: provare a immaginarmi che cosa stiano facendo quei professionisti appartenenti alle squadre blasonate e quale sia il loro impegno. E una marea di ricordi: la commozione autentica per la vittoria nello spareggio che ci ha permesso di salire per la prima volta in Promozione, ma anche le lacrime per gli spareggi persi. Tutti momenti che si ricordano con piacere perché rappresentano un qualcosa di tuo, che hai nel DNA.»

 

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