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AQUILA, UN RICORDO E UNA LEZIONE

Giornate da non dimenticare. Erano le 3:32 del 6 aprile 2009 quando un terremoto di magnitudo 6.3 distrusse l’Aquila e fece riunire gli italiani attorno alla disperazione degli abruzzesi. In quei giorni e nei mesi a seguire vennero impiegate molte forze per aiutare la popolazione colpita. Una delle tante fu la Croce Rossa Italiana che […]

Giornate da non dimenticare. Erano le 3:32 del 6 aprile 2009 quando un terremoto di magnitudo 6.3 distrusse l’Aquila e fece riunire gli italiani attorno alla disperazione degli abruzzesi. In quei giorni e nei mesi a seguire vennero impiegate molte forze per aiutare la popolazione colpita. Una delle tante fu la Croce Rossa Italiana che mobilitò i volontari dei diversi Comitati sparsi sul territorio nazionale, tra questi partirono anche da Vado Ligure – Quiliano.

SHARON TEMPESTINI
Chi si sente di raccontare

“Ho chiesto – riferisce il Presidente Davide Rastello – se ci fosse qualcuno di quelli che hanno prestato servizio all’Aquila disposto a raccontare i giorni passati in missione”. I Volontari che oggi, hanno voluto condividere la loro esperienza sono Yuri Mazzucco e Rosanna Abate, entrambi scesi nel campo di Assergi, sotto il Gran Sasso a pochi chilometri da Onna.

 

La logistica del campo

“Chi dava la propria disponibilità – riferisce Rosanna – poteva restare al campo non più di dieci giorni per evitare un eccessivo affaticamento fisico e mentale”. Sia Mazzucco che Abate sono scesi nelle prime due settimane di agosto insieme al corpo militare della Croce Rossa Italiana che li ha portati all’Aquila “Qui – spiega Yuri – c’era il COM, centro operativo misto, che aveva il compito di creare le squadre e smistarle tra i diversi campi CRI. Infatti, io e Rosanna non eravamo nella stessa squadra anche se le mansioni che si andavano a svolgere erano le stesse.” Quali erano gli incarichi? “I compiti che le squadre dovevano svolgere – interviene la volontaria – venivano assegnate dal Capo campo al mattino durante il briefing e variavo dalla cucina, distribuzione pasti, pulizie, alla logistica e a volte c’era la possibilità di fare urgenze e assistenza diretta alla popolazione colpita”. Com’era strutturato il campo? “C’erano diverse tende, – illustra Mazzucco – al centro quella del responsabile del campo dove al mattino avveniva l’assegnazione delle funzioni, poi il tendone principale che ospitava la mensa e qui si facevano le riunioni, una era adibita a Chiesa e infine c’erano quelle destinate ai militi”. Come era la vita al campo? “Gli abitanti – spiegano entrambi – per avere un ricordo della vita quotidiana erano liberi di spostarsi verso i paesi vicini e il campo stesso era strutturato con vie e uffici tipici della cittadina prima del terremoto. Una cosa che ci ha colpito a tutti è stata l’accoglienza riservataci dai residenti con la quale abbiamo legato molto”.

 

Una “gita” che lascia il segno

Siete rimasti tutti i giorni ad Assergi? “No, – raccontano – un giorno ci siamo recati nelle zone più colpite e quando siamo giunti a Onna, epicentro del sisma, siamo rimasti impressionati, non avevamo parole per descrivere ciò che stavamo vedendo. Nonostante fossero passati mesi il tempo in quel luogo si era fermato. La pulizia dalle macerie non era ancora avvenuta e noi potevamo guardare inermi tutte quelle pietre ammassate che una volta erano case abitate, è stato bruttissimo”. Riguardo le sensazioni provate Yuri ha piacere di precisare: “Quando sono partito avevo 20 anni, era la mia prima missione, e pensavo di sapere già cosa mi aspettasse. Ma così non è stato. La Tv ti faceva capire cosa la catastrofe naturale aveva causato ma lì ho appreso la vera realtà grazie anche ai racconti delle persone che erano sopravvissute”.

Un’esperienza che porta con sé una crescita personale

“Ci sono stati momenti in cui avevo paura, – conclude Rosanna – i bagni erano distanti dalla mia tenda e per recarmici di sera dovevo camminare al buio con il rischio di imbattermi nei cani che vivevano in cattività, ma, a parte ciò, le giornate passavano in allegria sia con la mia squadra che con gli abitanti del luogo. Nonostante l’aria che si respirava era carica di sofferenza sono tornata a casa con delle belle sensazioni perché mi sono resa conto di aver dato un po’ di luce alle persone che hanno vissuto quell’incubo, contavano e si affidavano a me. Inoltre, grazie a quel breve soggiorno ho potute creare legami forti sia con la gente del posto, i quali mi hanno inviata in un secondo momento, e con gli altri volontari del mio gruppo”

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