La parabola calcistica in campo e in panchina di Enrico Ferraro, meglio noto come Chicco, rappresenta il tipico caso di come non sia poi così raro essere profeti in patria.
BORIS CARTA
Quilianese doc, capitano storico del Quiliano tra gli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio, l’onore di essere il primo allenatore della nuova realtà calcistica che risponde al nome di Quiliano&Valleggia ha rappresentato e rappresenta tuttora l’approdo più naturale per uno straordinario esempio di dedizione alla causa come quello da lui profuso.
Vero, Chicco?
«Esatto, il calcio è stato la mia passione fin da piccolino. Ho iniziato prestissimo a giocare nelle giovanili del Vado con l’allora categoria NAGC (acronimo di Nucleo Addestramento Giovani Calciatori) e da lì sono poi entrato in prima squadra arrivando a militare in Eccellenza, prima di passare al Quiliano di cui ho vestito la maglia per 14 campionati tra Prima Categoria e Promozione, fino a quando i problemi fisici non mi hanno costretto a smettere perché avevo consumato le ginocchia a forza di correre in campo. Ricordo quando, a una visita, il professor Bertola mi aveva detto: “Sarà meglio che inizi a leggere”. Io non avevo capito la battuta e allora lui ha puntualizzato: “Sì, perché sarà meglio che non corri più”. Mi sono convinto e ho appeso definitivamente le scarpe al chiodo.»
Magari, per «leggere», intendeva consigliarti di studiare da allenatore…
«L’ho presa per quel verso anche se, per la verità, avevo iniziato ad allenare quando ancora giocavo occupandomi del settore giovanile del Quiliano. Dopo aver frequentato i corsi per il settore giovanile e UEFA B ho allenato per un anno la prima squadra dell’Albisola come vice di Derio Parodi, prima di prendere il suo posto ed essere a mia volta sollevato dall’incarico per problemi dirigenziali più che di classifica. Quindi ho guidato gli “Allievi” del Finale ottenendo buoni risultati, dopodiché sono rientrato a Quiliano. Poiché sono da sempre appassionato di calcio, ho sempre avvertito il desiderio di approfondirne la conoscenza attraverso libri e corsi. Oggi ho meno tempo ma in passato, oltre ai vari stage, ho seguito assiduamente gli incontri di formazione organizzati da Sergio Soldano, attuale responsabile tecnico del settore giovanile della Cairese e autentica istituzione del mondo del calcio dilettantistico. Tra le varie esperienze, ho partecipato a un corso tenutosi a Torino al quale era intervenuto anche Ciro Ferrara, all’epoca allenatore della Juventus, mentre in un’altra occasione mi sono recato sul Garda, nella sede del Chievo, per prendere parte a uno stage al quale erano presenti alcune società argentine. E poi sono abbonato a numerose riviste calcistiche, dalle quali prendo spunto per le varie soluzioni tattiche.»
Parafrasando il grande Eduardo De Filippo, gli esami non finiscono mai…
«Dai tempi in cui giocavo a oggi il calcio è cambiato tantissimo, di conseguenza occorre tenersi aggiornati sia sotto l’aspetto tattico che quello psicologico. Questo anche per quanto concerne il rapporto con i giocatori: è vero che sono animati da passione come eravamo noi, ma è altrettanto che vero che più di noi rischiano di cadere in distrazioni. Pertanto bisogna sempre cercare di invogliarli a venire al campo, specialmente in un periodo come questo in cui la domenica non si gioca. Io, la dirigenza e gli altri allenatori ci stiamo riuscendo perché abbiamo un bel gruppo di persone – il preparatore dei portieri, un ragazzo che mi aiuta come secondo allenatore, il tecnico della seconda squadra – che si vedono spesso e riescono a creare negli allenamenti un clima che invoglia i ragazzi a venire.»
Tornando a te in veste di calciatore, quali sono stati i tuoi primi maestri calcistici?
«Nel settore giovanile del Vado ne ho avuti tantissimi. Ricordo gli storici Franco Albi – meglio noto come Baffo – e Davide Ansaldo, Fulvio Piovano (che successivamente ho avuto anche in prima squadra), Aldo Di Biasio (ex giocatore professionista in alcune squadre dell’Italia centrale), Paolo Gandolfo, il povero Gianni Lisena… Tante persone brave, che mi hanno insegnato molto. A livello di prima squadra, il mio primo allenatore è stato Gino Ghigliazza, quilianese come me: l’ho avuto a 17 anni, quando il Vado mi aveva dato in prestito per un anno al Quiliano perché non ero ancora pronto per esordire in rossoblu. In quella stagione ho disputato 29 partite su 30 giocando al fianco di gente come Massimo Becco, Luciano Brondo, Tonino Grippo (questi tre li avrei ritrovati al Quiliano in qualità di allenatori), Giorgio Rapalino e Lorenzo Ratti: uno squadrone che, infatti, a fine anno è salito in Promozione. Quando poi, rientrato a Vado, sono rimasto fuori a causa di un brutto infortunio, il Quiliano ha accettato di volentieri di riprendermi e qui ho svolto tutto il resto della mia carriera sotto la guida di vari tecnici, da ognuno dei quali ho ricevuto qualcosa: Claudio Nucci, Luciano Rossi, Leandro Pansera (con cui abbiamo vinto il campionato di Prima Categoria nel 1999), solo per citarne alcuni. E tanti giocatori, perdonami se non cito tutti.»
Si potrebbe dire, in pratica, che hai “passato il ponte” al contrario essendo cresciuto calcisticamente a Vado…
«È stato più che altro per ragioni di comodità, in quanto abitavo in una zona più vicina a Valleggia e mio padre lavorava a Vado. E poi bisogna dire che a quei tempi il Vado – dove già giocava mio fratello – disponeva di un buon settore giovanile, senza dubbio più ricco calcisticamente rispetto a quello, pur buono, del Quiliano. E la mia leva, quella del 1972, era forte: c’erano Rossano Cancellara (con noi nonostante fosse un ‘73), Martino Moiso, Ivano Ceppi, il povero Paolo Ponzo, un certo Christian Panucci (altro ‘73). Non a caso, in quel periodo, siamo stati campioni regionali nella categoria “Giovanissimi”. Ma soprattutto ci siamo divertiti.»
Notoriamente, a Quiliano il calcio è molto sentito. Ma qual è il segreto dell’ambiente quilianese?
«È il fatto di trovare persone che hanno passione e sono pronte a fare sacrifici. Oltretutto, destino vuole che il campo si trovi al centro del paese e questo significa tanto: spesso in estate, nei periodi di preparazione alla nuova stagione, alla sera ci ritroviamo gente che viene a vedere l’allenamento. E poi, adesso che Quiliano dispone di una struttura invidiabile per posizione, manto erboso e spogliatoi, il campo diventa un bel punto di ritrovo non solo per spettatori e tifosi ma anche per i semplici curiosi. Se in passato il tradizionale “tempio” degli appassionati era notoriamente l’ormai leggendario Club Sportivi Quilianesi, oggi lo sono i dintorni della piazza di Quiliano, dove si trovano due locali come il Bar Fabio e il Caffè Millà di Mattia Arrigoni. Nei periodi antecedenti la pandemia di Covid, anche noi – dirigenti, allenatori e giocatori – ci recavamo lì al termine degli allenamenti e delle partite mescolandoci con i tifosi a scambiare parole. Molta gente mi conosce perché, oltre a essere di Quiliano, prima ci ho giocato e oggi ci alleno: una parola, una battuta e un complimento li ricevo sempre. Per i ragazzi, è ovvio, ma è sempre comunque piacevolissimo.»
E nel frattempo siamo tornati ai giorni nostri: il 2017, come sappiamo, è l’anno della fusione tra le due storiche società calcistiche di Quiliano. Quali sono stati gli ostacoli che il neonato sodalizio ha incontrato nella fase iniziale del suo cammino?
«La principale difficoltà è stata quella di ricreare l’ambiente, non solo riguardo al numero dei giocatori ma anche per quanto concerne i dirigenti. Il primo anno è stato un po’ particolare: avevamo aperto le porte sia ai giocatori del Quiliano che a quelli del Valleggia con il risultato di ritrovarci quasi in troppi, anche perché tra Prima e Seconda Categoria c’è differenza sia nei ritmi di gioco che negli impegni di allenamento. Piano piano, comunque, si sono scremati da soli senza che noi avessimo mandato via nessuno. È ovvio che, essendo io l’allenatore, il mio compito sia quello di preparare i ragazzi e fare delle scelte che solo il campo potrà dire se saranno giuste o sbagliate. Ma, lasciamelo dire, la cosa più bella e importante che abbiamo fatto in questi quattro anni è stata quella di riportare tanti giovani di Quiliano a giocare nella squadra del loro paese. E sono ragazzi che hanno un’età media bassissima: ogni domenica io gioco con cinque-sei sottoquota e solo due-tre cosiddetti “veterani”. Tutto questo, oltre al fatto che siano quilianesi, fa sì che i loro parenti, familiari e amici vengano con piacere al campo per vederli giocare. Da quando poi Toro Marotta ha assunto la carica di direttore sportivo e Riccardo Armellino, una volta smesso di giocare, è diventato direttore generale le nostre ambizioni sono cresciute perché si tratta di due giovani ricchi di volontà ed esperienza calcistica, gli elementi giusti per questo tipo di progetto. Già l’anno scorso chi proveniva dalla squadra juniores con me trovava spazio, non mi sono mai posto il problema di togliere un anziano per inserire un giovane a seconda di come si metteva la partita. E se abbiamo tanti giovani è perché sanno che possono trovare spazio, le nostre porte sono aperte per tutti.»
Insomma, quasi una missione…
«Io sono molto legato a Quiliano e a questo campo. Dopo aver allenato ad Albisola, Vado e Finale è stato un onore poter tornare qui. In questi quattro anni, con sacrifici, siamo riusciti a ottenere discreti risultati: non è questione di categoria, è un discorso di legame autentico con l’ambiente quilianese. Certo, se un giorno si presentasse la necessità di lasciare Quiliano per altre soluzioni non avrei problemi a trasferirmi perché per me allenare è fondamentale. Come detto, io allenavo già quando giocavo ancora e a Quiliano ho guidato dai piccolini fino alla juniores: se pensi che ho iniziato a 21-22 anni e adesso ne ho 48… E dall’età di 32-33 anni, tanti ne avevo quando ho dovuto smettere di giocare per motivi fisici, non c’è stato un anno in cui non abbia allenato. Mi diverte, non saprei rinunciarvi.»
Il divertimento, l’elemento fondamentale che dovrebbe caratterizzare ogni sport. Purtroppo, non di rado, i genitori dei ragazzi che si cimentano nella pratica di una disciplina sportiva – specialmente se popolare come il calcio – tendono a mettere tale aspetto in secondo piano rispetto alla prospettiva di una carriera per i loro figli e, conseguentemente, alla possibilità di un tornaconto economico…
«Se dovessi raccontarti tutto quello che mi è capitato di vedere quando ero al settore giovanile ci sarebbero da scrivere dei libri. Dico solo che certe situazioni non sono facili da gestire: i genitori che presenziano agli allenamenti e alle partite sono troppo dentro alla posizione e al ruolo dei figli, mentre invece dovrebbero sapere che ciò che conta è vederli divertiti quando li vengono a prendere al termine degli impegni. Altro discorso sarebbe se i ragazzi non si divertissero o avessero da recriminare qualcosa con dirigenti e allenatore, allora in quel caso i genitori potrebbero intervenire; ma, fortunatamente, da noi non è mai successo. Per il resto, mi piacerebbe che tutti i nostri ragazzi diventassero campioni ma so che non è così: i numeri parlano di altre soluzioni.»
E a mio avviso, vista la serietà del vostro progetto, le premesse affinché i genitori vedano i figli uscire dal campo felici ci sono tutte…
«Ed è proprio ciò che, in questo momento, i dirigenti e gli allenatori stanno creando. Il sogno dei nostri ragazzi è quello di approdare nella prima squadra del Quiliano e secondo me è una cosa fattibile, perché mettono entusiasmo in quello che fanno. Se poi saranno bravi è giusto che ambiscano a palcoscenici più prestigiosi. E i primi a esserne orgogliosi saremo proprio noi.»
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