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FLAVIO BERTOLA, IL CALCIO DI STRADA

Nato calcisticamente come prima punta ma rivelatosi nel corso della carriera elemento straordinariamente efficace per ogni ruolo dell’attacco (soprattutto quello di tornante, con quella maglia numero 7 un tempo tanto bistrattata e oggi sogno inconfessato di molti aspiranti calciatori), Flavio Bertola potrebbe essere definito una delle “colonne” del «Quiliano delle meraviglie» degli anni ‘80 se […]

Nato calcisticamente come prima punta ma rivelatosi nel corso della carriera elemento straordinariamente efficace per ogni ruolo dell’attacco (soprattutto quello di tornante, con quella maglia numero 7 un tempo tanto bistrattata e oggi sogno inconfessato di molti aspiranti calciatori), Flavio Bertola potrebbe essere definito una delle “colonne” del «Quiliano delle meraviglie» degli anni ‘80 se non fosse per il fatto che lui non dimostri di tenere particolarmente a questa definizione.

BORIS CARTA

«Parlare di colonna è eccessivo, non amo definirmi tale perché non sono mai stato un protagonista se non, forse, in Terza Categoria. Ritengo piuttosto di essere stato un ottimo gregario, i protagonisti sono stati altri ed è giusto che sia così.»

Ora, però, ripartiamo dall’inizio: come e quando sono nati la tua passione per il calcio e il desiderio di praticarlo?

«Per me il calcio è sempre stato una passione grandissima. Da ragazzino non giocavo in una squadra, non sono cresciuto in settori giovanili particolari: mi piaceva giocare con i miei amici – usavamo due maglioni per delimitare le porte, roba che i ragazzi di adesso neppure si immaginano –al Prolungamento di Savona, al Sacro Cuore, al campetto di Lavagnola. Mi capitava di uscire di casa alle due del pomeriggio e tornare alle otto di sera, per la disperazione della buonanima di mia madre che mi perdeva per pomeriggi interi, ma era un qualcosa a cui non potevo fare a meno: era stato mio padre, che ha sempre amato il calcio e soprattutto il Savona, a trasmettermi tutto ciò. Poi, a 14-15 anni, ho cominciato anche a entrare in qualche squadra trascinato dagli amici. Anzi, in particolare da uno: Giorgio Rapalino, che mi ha portato a giocare nello Speranza. Da lì ho iniziato, sono andato avanti e un bel giorno sono arrivato a Quiliano.»

Una storica formazione del Quiliano allenata da Marcolini

Pensando ai primissimi tempi e alle porte fatte con i maglioni, mi viene da parafrasare il DJ Gabry Ponte: che ne sanno i 2000

«Assolutamente vero. Per non parlare delle signore anziane che chiamavano i vigili per farci mandare via, era fantastico. Ricordo quando un vigile era venuto a prenderci il pallone e ce l’aveva portato via dicendoci di andare al comando che una volta si trovava in centro, vicino al Comune. Siamo andati là in un gruppetto e questo signore, gentilissimo, ci ha detto: “Ragazzi, non potevo non portarvi via il pallone perché la signora mi rompeva veramente. Andate a giocare tranquilli”. Erano decisamente altri tempi, i ragazzi di oggi non sanno cosa si sono persi. Imparavi di più giocando al Prolungamento con gli amici che non frequentando gli allenamenti perché ti capitava di giocare contro gente che aveva un certo tipo di carattere e poi, magari, è finita male nella vita. Ma era così che ti facevi le ossa. E quando scendevi in campo eri già pronto.»

Azione sottoporta su punizione per il Quiliano

Una vera palestra di vita, prima ancora che di calcio…

«Personalmente, posso dire che nessuno mi ha insegnato a giocare a calcio. A Quiliano, trovandomi al fianco di elementi di categoria superiore, ho imparato molto, ma ciò che ho fatto da ragazzino è stata tutta farina del mio sacco e tutto istinto. Oggi i bambini cominciano a essere allenati già a sei anni, non c’è paragone. Nonostante fossi entrato in una squadra più tardi rispetto ad altri continuavo nel frattempo a giocare nel campetto o al Prolungamento perché era lì che mi divertivo. Poi, crescendo, era naturale che la cosa si evolvesse; ma il giocare per strada restava una cosa assolutamente fantastica.»

Al momento di andare “a scuola”, cioè in occasione del tuo primo ingresso in una squadra, quali sono stati i tuoi primi maestri calcistici?

«Il primo è stato il compianto Ugo Rossi, già discreto calciatore. Aveva creduto tantissimo in me da subito, era stato lui a darmi le prime dritte e i primi rudimenti: ogni tanto mi prendeva da parte per insegnarmi il dribbling, come fare la finta o come tirare un rigore, anche se non sono mai stato un rigorista. E con lui ho sempre giocato. A Quiliano, dove mi aveva portato l’indimenticabile Francesco Landucci, sono stato “consacrato” da un altro Rossi: Luciano. Ma non solo io, è stato consacrato tutto il gruppo perché Luciano ha creduto ciecamente in quel progetto. È arrivato a Quiliano quando io mi trovavo lì già da un anno ed ero reduce dalla stagione interlocutoria sotto la guida di Riolfo. Con Luciano è iniziato il periodo “spesso” a livello calcistico e i grandi risultati sono arrivati subito: dopo il primo anno in cui eravamo inseriti nel girone del Ponente, con l’arrivo del nuovo tecnico siamo passati nel girone della Valbormida e in quello siamo rimasti anche in seguito. Se raccontassimo oggi dove abbiamo giocato allora nessuno ci crederebbe: il campo di Ferrania, per dire, era pazzesco. Ma era bello anche per quello.»

 

E non eravate che all’inizio della vostra magnifica avventura…

«Era stato il mitico presidente Fulvio Moirano a volere fortemente Luciano Rossi alla guida della squadra. Fulvio era ed è un personaggio fantastico: capiva di calcio ma anche di tante altre cose, basti pensare a dove è arrivato nella sua vita. E soprattutto capiva di uomini. Insieme a Mauro “Gerry” Giusto, Michele Salinas, Giovanni Visca e altri aveva messo insieme questa meravigliosa realtà: una società forte che riusciva, anche con pochi soldi, a prendere giocatori di un certo livello e a formare una squadra sempre competitiva. Va detto che il Quiliano vantava già una notevole base di giocatori locali e ciò ha facilitato il compito: io e Rapalino, arrivati da Savona, insieme a quella base siamo andati avanti per anni, e ogni anno c’era un’aggiunta. Dopo aver trionfato in Terza Categoria abbiamo mancato, per un punto rispetto al Bragno, la vittoria nel campionato di Seconda Categoria pur avendo totalizzato un punteggio record: le altre squadre non contavano, noi e il Bragno avevamo giocato un torneo a parte. Abbiamo disputato praticamente due stagioni senza perdere una partita, sensazioni impossibili da descrivere se non si provano. E comunque il salto in Prima Categoria è stato rinviato soltanto di un anno. Ma non posso non ricordare anche il grande Antonio Marcolini, per me il secondo “mister” più importante a Quiliano dopo Rossi: mi ha allenato per due stagioni, tra il 1987 e il 1989, nella prima delle quali abbiamo sfiorato il salto in Promozione come secondi classificati. E ad allenarsi con noi veniva anche suo figlio Michele, futuro giocatore di Serie A con Bari, Atalanta e Chievo, che all’epoca aveva 12-13 anni.»

Non si potrebbe comprendere appieno l’atmosfera di quei tempi senza correre con il pensiero al Club Sportivi Quilianesi, il tempio della passione di una cittadina da sempre legata a filo doppio al calcio…

«Personalmente sono stato accolto benissimo fin da subito, anche se per i primi due-tre anni avevo continuato a frequentare la mia compagnia di amici di Savona mentre a Quiliano, al di fuori del campo, non avevo grossi rapporti. A partire dal 1983-84, però, ho “passato il ponte” in tutto e per tutto: ho cominciato a frequentare assiduamente Quiliano e, più avanti, ho avuto anche una relazione con una ragazza quilianese. E sia l’ambiente del paese che quello del Club Sportivi Quilianesi rappresentano tuttora una parte importantissima della mia vita nonostante ultimamente abbia perso un po’ degli agganci che avevo, anche se, con mio grande piacere, i miei due figli gemelli hanno giocato nelle giovanili del Quiliano. Anzi, Manuel aveva ripreso e se non fosse sopraggiunta l’emergenza sanitaria sarebbe dovuto entrare nella seconda squadra diretta da “mister” Caddeo impegnata in Seconda Categoria; Cristian, invece, allena insieme al mio ex compagno di squadra Gigi Cavaliere e sta imparando tanto da lui. In questo modo ho avuto l’occasione di riallacciare un po’ di rapporti che si erano persi col tempo. E quando ho saputo della chiusura del Club Sportivi Quilianesi mi sono rammaricato tantissimo: non potrò mai dimenticare le intere serate che vi ho passato giocando a boccette con Marco Becco, Franco Amorelli e Bruno Marcello, solo per citarne alcuni. Andavamo lì e trascorrevamo ore in compagnia e allegria insieme alla gente del paese: Luciano Sartelli, Angelo Passeggi, Franco Luna… erano tantissimi i personaggi con cui passavamo il tempo e che la domenica venivano a vederci giocare. Ricordo ancora i derbies con lo Zinola: non so come gli spalti potessero contenere tutta quella gente, era una cosa fantastica.»

Detto del periodo d’oro, quali sono stati invece i momenti più difficili che hai dovuto affrontare durante i tuoi dieci anni di milizia in biancorosso?

«Io ho giocato nel Quiliano fino al 1990, anno in cui siamo saliti in Promozione in virtù del quarto posto conquistato perché i vari campionati erano stati riformati portando a quattro il numero delle promosse. Ma quella stagione per me non era stata buona: non avevo legato con l’allenatore Gino Ghigliazza e, di conseguenza, ero sceso in campo pochissime volte. Tornassi indietro mi comporterei diversamente, anche se in realtà mi ero comportato benissimo: erano stati altri a non essersi comportati altrettanto bene nei miei confronti, ma va bene anche così. Ero rimasto perché avevo legato tantissimo con il gruppo: spesso, il venerdì sera, una volta finito l’allenamento andavamo fuori assieme e quello significava tanto per me. Oltretutto stava finendo la mia storia con la ragazza di Quiliano di cui ti ho parlato e anche quel fatto aveva influito in modo non positivo. Nonostante tutto, comunque, ricordo volentieri anche quell’ultimo anno. In seguito ho giocato in Seconda Categoria con Priamar, Celle e Lavagnola ‘78 (in quest’ultima società ero andato perché mi era stato promesso un lavoro). Dopo un anno di inattività calcistica sono stato convinto a tornare in campo da Beppe Corbellini, che all’epoca allenava il Sabazia, sempre in Seconda Categoria, e aveva messo insieme un gruppo di “vecchie glorie”, chiamiamole così: oltre a me c’erano Gulli, Calvi, Ricchebono e Mordeglia, solo per fare qualche nome. Vuoi per il lavoro, vuoi perché ero stato fermo un anno – e a 32-33 anni, quanti ne avevo allora, non è semplice riprendere – non ho portato però a termine la stagione: a un certo punto ho detto a Beppe che non ce la facevo più e ho lasciato perdere. Ma è stata comunque un’altra bella esperienza, tanto più avendola vissuta con un gruppo di persone che conoscevo bene. E poi Corbellini, detto Il Cobra, è un vero signore del calcio: già calciatore professionista nel Savona anni ‘70, era poi passato al Boys Vado prima di venire ad allenarsi per qualche anno a Quiliano, dove l’ho conosciuto. Ancora adesso ci vediamo ogni tanto, siamo rimasti molto amici.

Come hai accolto la notizia della fusione, nel 2017, delle due anime calcistiche quilianesi?

«Attualmente la dimensione ideale del calcio a Quiliano è tra Prima Categoria e Promozione. Ai miei tempi, nonostante le due squadre raramente si fossero incrociate, la concorrenza tra Quiliano e Valleggia era forte, anche se non parlerei di rivalità vera e propria. Tuttavia, arrivati a un certo punto, mi sento di dire che sia stato giusto così in quanto non c’era più un bacino di ragazzi che permettesse di formare entrambe le squadre e, magari, due settori giovanili. Oltretutto, prima della fusione, l’anima del Valleggia era rappresentata da giocatori che già avevano fatto parte del Quiliano, come i fratelli Chicco e Marco Ferraro. L’impostazione che il Quiliano&Valleggia ha dato fin da subito al proprio settore giovanile dovrebbe, a mio avviso, essere adottata da tutte le squadre, soprattutto a questi livelli: non ha senso andare a cercare giocatori in giro, ma occorre creare un vivaio che sia all’altezza di portare i ragazzi in prima squadra con costi relativamente bassi e risultati in prospettiva. Se si riesce a creare tutto questo è naturale che i ragazzi ci mettano più impegno, giochino per la maglia come giocavamo noi: io, per esempio, pur venendo da Savona mi sono sentito quilianese fin da subito. Pertanto, se si riesce a coinvolgere i ragazzi di oggi e a inculcare loro questa mentalità è tanta roba.»

Per concludere, Flavio: a distanza di tanti, che cosa rappresenta ancora il calcio per te?

«Il calcio resta la mia grande passione, penso che me la porterò nella tomba: sono da sempre uno sfegatato tifoso interista e vivo questo sport a 360 gradi. Ho smesso di giocare all’incirca a 33-34 anni perché non avevo più la testa, soprattutto per gli allenamenti. Adesso giocherei di nuovo, mi è tornata la voglia, ma so a che a 58 anni è ovviamente impossibile. Mi sono distaccato un pochettino dalle vicende calcistiche a livello locale nel momento in cui mi sono ritirato salvo, come ricordato, tornare a seguirle quando hanno cominciato a giocare i miei figli. E ogni tanto qualche partita me la vado ancora a vedere.»

 

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