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CRIMENI, IL QUILIANO COME VITA

Giuliano Crimeni, difensore arcigno come il calcio di un tempo comandava, non è stato una colonna del Quiliano “dream team” soltanto per il ruolo ricoperto in campo; lo è stato anche, e soprattutto, perché lui quell’epopea l’ha vissuta in pieno, avendo respirato l’atmosfera del rettangolo verde sin dalla più tenera età.   BORIS CARTA   […]

Giuliano Crimeni, difensore arcigno come il calcio di un tempo comandava, non è stato una colonna del Quiliano “dream team” soltanto per il ruolo ricoperto in campo; lo è stato anche, e soprattutto, perché lui quell’epopea l’ha vissuta in pieno, avendo respirato l’atmosfera del rettangolo verde sin dalla più tenera età.

 

BORIS CARTA

 

«Avevo 12 anni quando sono entrato a far parte del Quiliano insieme ad altri ragazzini dai Giovanissimi a salire. Provenivamo tutti dal Valleggia, che si era fuso a livello di settore giovanile con il Quiliano in quanto, essendo in pochi, non poteva sostenerci. E al Valleggia, va da sé, ho avuto la fortuna di conoscere il grande Francesco Landucci. Non mancavo mai di prendere parte ai tornei che organizzava: addirittura, negli ultimi anni, partecipavo a quelli riservati ai “liberi” perché mi piaceva l’atmosfera che si respirava al palazzetto di Zinola come al Tennis Club. Ovunque Landucci organizzasse, io andavo. Era una persona squisita, che viveva per il calcio.»

   

Una “distinta” di gioco datata: risale al 30 dicembre del 1984 e riguarda la partita Ferrania-Quiliano. Un vero e proprio documento storico

                                                                                                

Un grande maestro di calcio, ma soprattutto di vita…

 

«Assolutamente. E anche i collaboratori di cui si avvaleva erano come lui. Ricordo che quando ho iniziato a giocare c’era Guglieri, che ci faceva da padre più che da allenatore. La prima cosa che ci chiedeva quando ci portava sul campo era se avevamo fatto i compiti e se non li avevamo fatti ci mandava a casa perché per lui, come per Landucci, prima veniva la scuola e poi il calcio. Lo stesso faceva se al sabato trovava qualcuno con le scarpe sporche di polvere o non lucidate. Ma anche Francesco Pilleri (papà di Maurizio, che giocava con noi) e Mario Crosa sono stati importanti per la mia formazione calcistica. Lo scopo principale di tutti coloro che mi hanno cresciuto era quello di far giocare persone che tenessero alla squadra e fossero attaccate alla maglia, gente del paese oppure che frequentava da anni Quiliano. Per non parlare del Club Sportivi Quilianesi: un’autentica scuola di vita oltre che di calcio, il cuore pulsante del Quiliano. Tutti, giocatori e dirigenti, frequentavano esclusivamente il Club che era anche la sede della società: era lì che c’era la segreteria, era lì che ci si ritrovava prima e dopo gli allenamenti e la partita della domenica. E poi, per noi ragazzini di allora, i giocatori del Quiliano erano idoli quasi come i campioni della Serie A. Per la gente del paese il calcio rappresentava il divertimento e lo svago domenicale per antonomasia, anche in Terza Categoria c’erano centinaia di persone al campo. Per non parlare dei derbies con lo Zinola: in tribuna non entrava uno spillo dalla gente che c’era. Quando uscivamo dagli spogliatoi ed entravamo sul terreno di gioco ognuno di noi diceva: “Devo vincere per loro”, non avevamo alternative.»

                                                                                                    
E anche per te, invero molto presto, è giunto il momento di esordire in prima squadra…

 

«Avevo da poco compiuto 16 anni quando “Gerry” Giusto, Michele Salinas e il presidente Fulvio Moirano, i principali artefici della “rifondazione” del Quiliano, mi avevano portato tra i grandi. In seguito ho continuato ad alternarmi fra juniores e prima squadra finché sono entrato stabilmente in quest’ultima, con la quale ho vissuto l’escalation dalla Terza Categoria fino all’approdo in Promozione: un’impresa ormai lontana nel tempo, ma rimasta nel cuore di tutti. Ho vestito la maglia del Quiliano fino al campionato 1990-91, durante il quale ho giocato poco a causa di un infortunio a un ginocchio. Dopo un ultimo anno al Sabazia di Vado in Seconda Categoria ho deciso di smettere, anche perché in quell’anno mi sono sposato.»

 

Giuliano Crimeni
Chi sono stati i tuoi principali maestri calcistici?

«Da ragazzino, quelli che mi hanno insegnato a comportarmi in modo serio e a rispettare gli avversari sul piano personale sono stati senz’altro Guglieri e Pilleri. In prima squadra, colui che mi ha fatto esordire e mi ha tirato su negli anni è stato sicuramente Luciano Rossi: io e miei compagni eravamo le sue creature, ci portava sul palmo della mano. Per lui la parola “perdere” non esisteva, quando noi giocavamo lui era come un leone in gabbia: urlava, ci incitava in continuazione, se avesse potuto sarebbe venuto in campo a darci una mano.»

                                                                                                    
Un mix fra Gattuso e Conte, per fare un esempio più recente…

«Non so quanto Gattuso e Conte urlino durante la partita, ma penso che a quei tempi Rossi urlasse 90 minuti. Non ti dava tregua, se solo ti giravi un attimo per andare a raccogliere il pallone lui ti gridava: “Stai attento!”. Era molto sanguigno, ma soprattutto era un grande motivatore. E molto spesso allenatori di questo genere riescono a farti rendere dal punto di vista agonistico ancor più di quanto saresti in grado di fare solamente sul piano tecnico. Io, per esempio, che non ero tecnicamente ai livelli dei vari Claudio Bellisio, Bruno Marcello e Massimo Becco, ho sempre basato la mia carriera calcistica sulla grinta, sulla corsa e sul “rompere le scatole” agli avversari senza mai aver paura di niente. Mi buttavo testa e culo sul campo da calcio, ma una volta finita la partita andavo a bere assieme a compagni e avversari, amici come prima. Avevo preso quella mentalità, non volevo perdere. E poi avevo dei maestri anche in campo. Penso a Flavio Camici: tecnicamente aveva un sinistro che parlava e non ci stava a perdere neanche durante la partitella di allenamento in settimana, ti svestiva dagli urli che ti faceva se si perdeva. Ecco, io ho imparato con questa gente: perdere, mai.»

                                                                                                    

D’altra parte, nel calcio di allora, le doti principali che venivano richieste a un difensore erano grinta e determinazione…

«Io ho giocato sia da centrale che da terzino, sia a destra che a sinistra, perché mi piaceva giocare. Pur di andare in campo avrei fatto anche il portiere, perché mi impegnavo sempre. E, diciamolo pure, non ero proprio l’ultimo. Ti racconto questa: nei primi due anni con Luciano Rossi allenatore, in squadra c’era Francesco Spinelli, un ragazzo molto tecnico. Ebbene, Rossi ci alternava: quando eravamo impegnati in casa giocava Spinelli mentre in trasferta, dove c’erano da tirare fuori gli attributi e da curare anche la fase difensiva, giocavo io.»

                                                                                                    

Insomma, una sorta di competizione interna in modo da tenere i giocatori sempre sul pezzo…

«Indubbiamente. Se si giocava alle tre, lui ci convocava al Club Sportivi Quilianesi all’una – probabilmente eravamo l’unica squadra di calcio a riunirsi due ore prima della partita – e, una volta lì, ci annunciava la formazione. Noi non sapevamo nulla fino all’una. Poi, una volta al campo, ci cambiavamo e ci preparavamo: chi doveva giocare giocava, chi doveva stare in panchina stava in panchina. Ma, ripeto, fino all’una lui non ci diceva nulla. E naturalmente nessuno fiatava, neppure i più bravi si lamentavano se rimanevano fuori perché prima di tutto eravamo un bel gruppo. Certo, ti dispiaceva perché avresti voluto sempre giocare, ma poi ti guardavi un po’ intorno e dicevi: “È giusto che giochi anche lui”. Vorrei però ricordare anche gli allenatori che ho avuto successivamente, come Giuseppe Unere (giunto al Quiliano dal Borgio Verezzi, da cui si era portato anche suo figlio), il mio grande ex compagno di squadra Massimo Becco e Gino Ghigliazza, con cui siamo saliti in Promozione.»

                                                                                                    

Quali sono i momenti della tua militanza nel Quiliano che ricordi con più piacere?

«Naturalmente le promozioni in Seconda e Prima Categoria, ma soprattutto l’approdo in Promozione: le vittorie dei campionati sono sempre le soddisfazioni più grandi per chiunque giochi a calcio. Era bello per la gente che era in campo e per tutta quella che ci veniva a vedere. Ed era veramente tanta, tanta, tanta: ancora adesso mi capita di andare in giro per i campi, ma tanta gente sugli spalti come a quei tempi non l’ho mai più vista. E credo che oggi non si veda neanche in Serie D.»

                                                                                                    

I tempi sono cambiati, e con essi il calcio. Ma la passione, quando è autentica, non viene mai meno: un concetto che a Quiliano trova piena applicazione anche dopo la nascita, dalla fusione del 2017, della nuova società Quiliano&Valleggia…

«Diciamo che la filosofia del Quiliano è stata sempre quella di cercare di andare tutti d’accordo, di essere una famiglia prima ancora che una società, Per dire: chi allena i ragazzini spera sempre di tirare fuori qualche giocatore da dare alla prima squadra, perché a questi livelli i pochi soldi che ci sono vengono utilizzati per le trasferte e per l’acquisto del materiale. La soddisfazione di una società come questa è avere giocatori che a 16-17 anni siano in grado per lo meno di approdare in prima squadra. Del resto era così già ai miei tempi: ognuno di noi, a 12-13 anni, pensava “Chissà che un giorno non riesca ad andare in campo con i grandi”. Ci allenavamo solo per quello, per la soddisfazione di arrivare a essere accanto ai nostri idoli di quei tempi: i Brondo, i Gerbaudi, i Becco, i Bellisio…»

                                                                                                    

Com’è stato il tuo dopo-calcio?

«All’inizio ho sofferto il fatto di non poter più giocare per via del ginocchio che non mi reggeva. In seguito, piano piano, mi sono riavvicinato alla società grazie a Sergio Gracchi, che mi ha chiesto di dargli una mano ad allenare i ragazzini. Con la scusa che in quella squadra giocava anche mio figlio ho accettato subito, perché non riuscivo a stare senza un campo da calcio; fatto sta che li ho allenati fino ai 19 anni, proseguendo poi per molte stagioni in Prima Categoria finché Mario Gerundo è rimasto alla guida del Quiliano. Devo dire che all’inizio non è stato facile assumere le vesti di allenatore dopo tanti anni da giocatore: un conto è stare in campo e prendere gli ordini, un altro è trovarsi in panchina e doverli dare. Con i ragazzi devi essere un secondo papà più che un allenatore: se non vai d’accordo con loro non puoi allenarli, perché non ti seguono e non ti danno retta. Fortunatamente, con i ragazzini che ho allenato al Quiliano – la leva 1993-94 e, talvolta, la 1992 insieme a Tarantino – è sempre andata benissimo, tant’è vero che siamo andati a disputare tornei addirittura in Austria. Essendo tutti di Quiliano e dintorni e avendoli conosciuti fin da piccolini, loro mi consideravano un amico e un secondo papà: finito l’allenamento alle sette di sera, ogni volta ne avevo dieci-dodici a mangiare a casa mia ed ero poi io a riportarli a casa per non scomodare i loro genitori. Ogni volta mia moglie veniva al campo e mi chiedeva: “Per quanti devo buttare la pasta?”. E io: “Fai per dieci o dodici”. Per due-tre volte alla settimana era così, io li trattavo da figli più che da calciatori. Probabilmente sono stato facilitato in tal senso dal fatto di aver avuto allenatori che mi hanno inculcato quella mentalità: prima viene l’educazione e il rispetto, poi il calcio.»

                                                                                                                                                                                                                                  
Per concludere, Giuliano: che cosa rappresenta ancora il calcio per te?

«Prima di tutto un divertimento. Secondo me, a questi livelli, la prima cosa che ogni giocatore dovrebbe dire è: “Io mi diverto ad andare sul campo e voglio giocare a pallone”; altrimenti, se pensa di vivere di calcio e di giocare solo per soldi, ha sbagliato indirizzo. Gli stessi miei compagni più bravi, che arrivavano magari dalla Serie D e là guadagnavano, una volta giunti a Quiliano lo facevano per giocare gratis, solo per il paese e solo per la squadra. Cioè per passione, come ho sempre fatto io sia da giocatore che da allenatore: quei quattro soldi che prendevo come rimborso spese li impiegavo per comprare la muta da calcio ai ragazzini e per portarli a mangiare la farinata una volta al mese. Diciamo pure che a fare l’allenatore in questo modo finisci per mettercene di tasca tua, ma la soddisfazione di avere ragazzi che ti guardano come per dire: “Che allenatore che ho io!” non ha… prezzo.»

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