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RAPALINO:”SOGNAVO DINO ZOFF”

Riavvolgendo il nastro dei ricordi che ci riporta agli anni ‘80, un’epoca rimasta nel cuore di tutti gli sportivi di Quiliano perché coincisa con la travolgente ascesa della compagine locale nel panorama del calcio dilettantistico ligure, suona quasi riduttivo affermare come l’amore per il calcio di Giorgio Rapalino, brillante protagonista tra i pali biancorossi in […]

Riavvolgendo il nastro dei ricordi che ci riporta agli anni ‘80, un’epoca rimasta nel cuore di tutti gli sportivi di Quiliano perché coincisa con la travolgente ascesa della compagine locale nel panorama del calcio dilettantistico ligure, suona quasi riduttivo affermare come l’amore per il calcio di Giorgio Rapalino, brillante protagonista tra i pali biancorossi in quel magico periodo, sia sbocciato fin dalla più tenera età.

BORIS CARTA

«Infatti. Come mi diceva sempre mia mamma, in pratica ho iniziato a camminare correndo dietro a un pallone che rotolava. Il percorso vero e proprio ha preso il via nel momento in cui io e alcuni amici di scuola siamo andati a sostenere un provino per il Savona Calcio, ma data l’enorme quantità di bambini e ragazzi che frequentavano il settore giovanile professionistico biancoblu ci siamo dirottati verso un’altra società.»

Giorgio Rapalino in una foto del 1975 nella squadra del Ferraro, partecipante alla Coppa Pacella. Il portiere è l’ultimo in basso a destra.

Come mai hai scelto proprio il ruolo di portiere?

«Per la verità all’inizio giocavo da attaccante, ma non è che mi divertissi molto in quel ruolo. Così, un giorno, ho deciso di fare il portiere perché il mio giocatore preferito, insieme a Gigi Riva, era Dino Zoff: mi piaceva come persona e per il suo modo di parare, ho seguito tutta la sua storia e mi sono ispirato a lui. Sono entrato nella squadra Giovanissimi della Ferraro Calcio, società allora molto conosciuta a Savona, dove ho incontrato i miei primi allenatori: ricordo il bravo Zilli, Ciacci e il compianto Ansaldo, che era il capo allenatore dell’epoca. Ho disputato tutte le partite ma, sfortunatamente, il Ferraro Calcio non ce l’ha più fatta ad andare avanti e a fine stagione è stato costretto alla fusione con il Vado, in cui ha fatto confluire l’intero settore giovanile. A quel punto, noi cinque-sei rimasti siamo passati al Santa Cecilia di Albisola: anche lì un paio d’anni nelle giovanili finché, purtroppo, non sono venuti a mancare i numeri per comporre le leve. Così mi sono trasferito allo Speranza Calcio, dove ho cominciato a ottenere qualche premietto nei tornei. E lì sono stato notato dai dirigenti del Quiliano, all’epoca presieduto da Fulvio Moirano con Mauro Giusto nelle vesti di direttore sportivo.»

In quale circostanza è maturato il tuo passaggio… al di là del ponte?

«In un modo un po’ rocambolesco, perché lo Speranza non voleva lasciarmi andare e all’epoca c’era il vincolo del cartellino firmato a vita. Ho trascorso altri due anni nella categoria Allievi dopodiché, raggiunto di riffa o di raffa l’accordo tra i miei genitori e il presidente dello Speranza Ugo Rossi, sono riuscito ad approdare al Quiliano. L’intenzione dei dirigenti era quella di creare una squadra juniores con molti giovani pescati dalle giovanili del Quiliano attingendo, qualora mancassero i ruoli e le forze, alle società del Savonese per reclutare ragazzi che avessero voglia di andare a giocare a Quiliano nonostante abitassero fuori dal paese. Appena io e altri ragazzi abbiamo iniziato ad allenarci ci hanno detto: “No, voi siete bravi e servite in prima squadra”. Così, a neppure 17 anni, mi sono ritrovato titolare.»

Come è stato l’impatto con il mondo dei “grandi”?

«All’inizio è stato molto duro e impegnativo. Noi giovani eravamo in molti, ma c’erano anche i cosiddetti “senatori”, soprattutto fra i difensori: gente di 35, 36 e anche 38 anni. Io, che ero il più giovane della squadra e giocavo in porta, li consideravo i miei papà adottivi perché, data la loro età, sarebbero potuti essere miei genitori. Ed effettivamente loro si prendevano cura di noi ragazzi: in diverse occasioni ci hanno riportati a casa a Savona una volta terminato l’allenamento. In tal senso vorrei ricordare Emanuele Perna, purtroppo non più tra noi, che era il difensore centrale e il capitano all’inizio della mia, chiamiamola, carriera nel Quiliano: è stato lui a insegnarmi tutti i trucchi e a stare in campo nel modo corretto, sgridandomi quando era necessario. Per le sue capacità nel dirigere il gruppo è l’”anziano” della squadra che mi è rimasto maggiormente impresso. E quando ha smesso di giocare diventando successivamente dirigente, l’ho avuto come allenatore in occasione del mio ultimo anno a Quiliano insieme al “mister” storico Luciano Rossi, al cui nome sono legate le varie promozioni di quel grande periodo. Con Emanuele era poi entrato in società anche il fratello Nicola, che tuttora segue con passione le avventure e le disavventure calcistiche quilianesi.»

Chi ha seguito maggiormente il tuo processo di maturazione calcistica?

«Sicuramente Giampaolo Brondo, fratello dei due gemelli attaccanti Luciano e Mauro, che ha vissuto esperienze calcistiche importanti con le maglie di Vado e Cuneo prima di vestire altresì la maglia della Veloce di Savona. Ricordo che quando sono arrivato mancava l’allenatore dei portieri a causa di rimborsi spese che non venivano dati a nessuno perché tutto si svolgeva all’insegna del volontariato. Ebbene, lui veniva a tempo perso e all’inizio della mia avventura al Quiliano la sua presenza mi è stata parecchio utile per imparare molti trucchi del mestiere. Un altro che ricordo con piacere è il compianto Vittorio Caviglia, preparatore dei portieri e già portiere del Vado, che mi ha seguito per sei-sette anni ed era il mio autentico motivatore: i suoi allenamenti erano massacranti, quasi da Serie A. A tal proposito mi viene in mente un aneddoto: siccome si parlava bene di me, il famoso talent scout Volpi era venuto a vedere l’allenamento del Quiliano mandato da Vatta, celebre responsabile del settore giovanile del Torino. A un certo punto Volpi si era avvicinato a Roberto Longoni – uno dei nostri direttori sportivi, a cui era legato da grande amicizia – e gli aveva detto: “Cavoli, ma quello che fanno oggi Rapalino e gli altri portieri noi lo facciamo in una settimana!”. Questo per dirti della durezza degli allenamenti, per di più su un campo in terra battuta che, in realtà, era più che altro pietre e ghiaia.»

Un bell’attestato di stima, non c’è che dire…

«Sicuramente. Per me Caviglia è stato una persona splendida: oltre a conoscere tutti i trucchi e le malizie del ruolo di portiere, si era davvero affezionato alla squadra e in particolare a me. Ricordo quando, tornando verso casa alla fine di ogni partita, passavo obbligatoriamente da Vado davanti al Bar Baguttino e lo trovavo lì in ansia – allora non c’erano i telefonini – a chiedermi per primo: “Cos’avete fatto? Sei andato bene? Sei andato male? Hai parato bene?” E quando magari gli dicevo che avevo parato un rigore, lui andava in brodo di giuggiole. I suoi allenamenti, seppure massacranti, mi hanno portato a raggiungere risultati davvero importanti per la categoria; tant’è vero che sono arrivato a giocare anche in Eccellenza, con il Finale, oltre a raggiungere la Promozione con il Quiliano. Davvero un miracolo calcistico per un portiere alto un metro e 72!»

 Tra gli allenatori, invece, chi ti è rimasto maggiormente impresso?

«Il primo tecnico che ho avuto a Quiliano è stato il signor Riolfo di Vado. Io, ragazzino in mezzo a tanti calciatori ultratrentenni, gli davo quasi del voi perché lo reputavo molto più anziano di me. Era il 1981-82 e disputavamo il campionato di Terza Categoria, il secondo torneo della Lega Calcio al quale il Quiliano si era iscritto dopo che la società si era riformata con il nome di Sportivi Quilianesi. Dopo aver preso parte ad alcuni tornei estivi, nel 1980-81 i dirigenti avevano deciso di partecipare alla Terza Categoria e l’anno successivo, mantenendo quei giocatori che erano gli amici del bar, avevano inserito dei giovani nei ruoli scoperti. Risale a quegli anni l’arrivo dei primi calciatori che in seguito hanno fatto la storia del Quiliano: oltre a me sono giunti Flavio Bertola, Marco Becco, Claudio Bellisio, Giorgio Landucci – attuale presidente del Quiliano&Valleggia e mio carissimo amico, nonché successore di Perna nel ruolo di difensore centrale – e suo fratello Andrea, con il solito Emanuele Perna a farci da “chioccia”. In quell’annata non eravamo andati oltre il nono posto a causa di qualche problema di assemblaggio della squadra: c’erano troppi galli nello stesso pollaio e Riolfo non era riuscito ad amalgamare una formazione da portare avanti nelle stagioni successive. L’anno seguente, il presidente Moirano si è presentato al raduno dicendoci queste parole: “Con Riolfo sono andati via alcuni giocatori perché non andavano d’accordo e non andava bene il mister. Sappiate che prendiamo un allenatore che, finché non andrà via lui, dovrete farvelo andare bene perché altrimenti andrete via voi. È un allenatore che viene da fuori: non vi conosce e ognuno si gioca il posto. Adeguatevi ai suoi metodi, perché questo allenatore sarà colui che ci porterà in Prima Categoria, se non in Promozione!”. Messe in tal modo le cose in chiaro a tutti, aspetto che talvolta manca oggi in Serie A, dopo qualche giorno ci ha presentato Luciano Rossi, un tecnico proveniente dalla Toscana e poco conosciuto nel Savonese, ma con una mentalità vincente pazzesca: per lui un pareggio equivaleva a una sconfitta. Appena arrivato ci ha detto: “In casa le dobbiamo giocare per vincere, fuori casa bisogna anche vincerle. Non voglio nessuna differenza: se andiamo a Bragno dobbiamo vincere, se siamo a Quiliano dobbiamo vincere perché siamo in casa. Se proprio va male, fuori casa pareggiamo”. Insomma, ci aveva inculcato una mentalità tale che noi dicevamo: “Oggi vinciamo perché ce l’ha detto il mister. Siamo i più forti e dobbiamo vincere!”. E poiché l’appetito vien mangiando, vittoria dopo vittoria diventavamo un rullo compressore.»

Tutti per uno, insomma. E quell’uno era Luciano Rossi…

«Assolutamente sì. I suoi allenamenti erano molto faticosi e pesanti, ma la domenica vincevamo e il martedì successivo li rifacevamo volentieri. L’attacco segnava, in difesa non subivamo gol e a centrocampo eravamo considerati l’unica squadra che giocava un po’ a calcio in quella categoria perché già provavamo certi schemi con la palla a terra e ripartendo da dietro. Vincevamo quasi senza faticare, spesso anche nel secondo tempo approfittando del calo degli avversari. Grazie all’arrivo di ulteriori rinforzi come Saldi, Budel, Pellegrino, Pesce e Pinto abbiamo vinto il campionato di Terza Categoria 1982-83 in carrozza con 40 punti (quando la vittoria era ancora a due punti e non a tre come adesso), realizzando la cifra record di 59 gol e mantenendo la porta inviolata per 550 minuti, un primato di imbattibilità. Bertola si è laureato capocannoniere con 22 gol, mentre Bellisio ne ha messi a segno 13. Alla gioia di questo trionfo si è aggiunta poi un’ulteriore soddisfazione: quella di avere otto nostri giocatori convocati al primo stage della rappresentativa provinciale di categoria allenata dal compianto Pino Marte che sarebbe poi andata a gareggiare al famoso Torneo delle Province. Alla fine di tutte le selezioni, a rappresentare il Quiliano nella rosa dei convocati per la fase finale eravamo in quattro: io, Claudio Bellisio, Flavio Bertola e Leonardo Pinto. Dopo aver eliminato in semifinale la grande rappresentativa di Genova vincendo per 2-0 (gara in cui io parai un rigore sull’1-0), abbiamo poi sconfitto per 1-0 la rappresentativa di La Spezia nella finale a Casarza Ligure e siamo diventati campioni provinciali. Tuttavia, non posso non citare anche gli altri tecnici che ho avuto: Giuseppe “Chicco” Unere (che da giocatore disputò anche una gara in Serie A con la maglia del Torino), Franco Davi, Antonio Marcolini e Gino Ghigliazza, con il quale siamo saliti in Promozione.»

Non si potrebbe immaginare la Quiliano calcistica dell’epoca senza il suo cuore pulsante: il Club Sportivi Quilianesi. Qual era l’atmosfera che un ragazzo di 17 anni come eri tu al tuo arrivo in paese era più portato a percepire all’interno di quel mitico club?

«Quando noi raccontiamo le storie del Quiliano e di quegli anni ci si illuminano gli occhi. E quando ci soffermiamo, magari anche noiosamente, su certi aspetti, chi ci ascolta ci guarda un po’ stranito. Giocare nel Quiliano per noi era come giocare in Serie A perché a Quiliano si vive di calcio: che si tratti di Terza Categoria, di Serie C o di Serie A, dal lunedì alla domenica sera non si parla d’altro. Noi ci ritrovavamo ogni volta al Club, il nostro ritrovo di allora, e una volta arrivati lì si parlava solo di calcio. La gente ci fermava per strada chiedendoci della partita, se avevamo giocato bene ci offriva da bere e il panino dopo la partita, se perdevamo ci gridavano: “Dormite, dovete svegliarvi!”. Nonostante gli allenamenti fossero due-tre al massimo e si giocasse solo la domenica, ogni giorno, quando si capitava al bar, si parlava della partita e delle altre squadre del campionato, l’atmosfera era sempre quella. Ma soprattutto, ed è questa la cosa bella, il Quiliano ha sempre avuto parecchi spettatori per le categorie dell’epoca: nei derbies contro lo Zinola Calcio in Prima Categoria e Promozione siamo arrivati ad avere 500 persone paganti oltre a ragazzini e dirigenti. Cifre, raffrontando le categorie, superiori a quelle del Savona che militava in C2. E anche nelle varie trasferte di Imperia, Ventimiglia, Cengio, Cairo il sostegno dei tifosi non ci mancava mai: erano davvero il nostro dodicesimo uomo in campo perché anche fuori casa facevamo sempre risultato. E avevamo, devo dirlo, anche molto pubblico femminile: c’erano ragazze davvero carine a sostenerci sugli spalti.»

E chissà quanta gente avrai visto crescere con voi, in dodici anni con quella maglia…

«Undici dei quali consecutivi, prima di un’ultima stagione dopo due o tre anni di pausa. Ero tornato per dare una mano all’ambiente calcistico quilianese, alle prese con alcune problematiche sorte dopo il periodo d’oro: essendoci abituati a conseguire grandi risultati, capitava che quando si giungeva terzi in Prima Categoria si cominciasse a storcere un po’ il naso per non aver vinto. Quando poi, per motivi di lavoro, Fulvio Moirano ha dovuto abbandonare la carica, la Società – forte di dirigenti appassionati, ma anche dell’aiuto del Comune di Quiliano – ha sostenuto il gruppo storico e la squadra è riuscita a conquistare il campionato di Prima Categoria approdando in Promozione. A tal proposito, vorrei citare alcuni dirigenti che si sono susseguiti, scusandomi fin d’ora se dimenticherò qualcuno: ricordo l’attivissimo Giovanni Visca, Mauro Giusto, una sorta di fratello maggiore per noi ragazzi, Enrico Picasso (figlio dell’allora sindaco), Michele Salinas, Gianfranco Dorindo, Sergio Maccagnan, che dava una mano ad allenare i portieri quando non c’era Brondo, per arrivare a Luciano Sartelli, Angelo Passeggi e Mario Ferrieri, arrivati successivamente e ancora oggi appassionati alle sorti del Quiliano. E, naturalmente, il grande presidente del Valleggia Francesco Landucci, da sempre sensibile verso i giovani. Ripeto, mi scuso con coloro che posso aver dimenticato. D’altronde, sono amico con quasi tutto il paese e quando mi sono sposato ho invitato addirittura 170 persone pur di avere la rosa completa del Quiliano compresi i dirigenti e qualche tifoso storico. Io e mia moglie avevamo faticato quasi un mese per trovare un ristorante che potesse contenere tutti. Alla fine l’abbiamo trovato a Ceriale ed è stato bellissimo, ancora oggi in molti si ricordano di quella festa.»

Rispetto alla prima volta in cui eri giunto a Quiliano, quali sono state le principali differenze che hai riscontrato nel momento in cui vi sei tornato?

«Il problema principale è stato quello di reperire i soldi necessari per acquistare i calciatori poiché cominciavano a prospettarsi annate dilettantistiche in cui i giocatori avrebbero avanzato richieste economiche. A Quiliano, fino ad allora, si era vissuto di “avete vinto, vi paghiamo una cena, vi offriamo da bere al bar”, ma per affrontare le corazzate genovesi servivano giocatori forti e di conseguenza costosi, sia che venissero comprati o che si prendessero in prestito dal Vado o dal Savona. A quel punto siamo andati in difficoltà. Dopo aver iniziato maluccio il campionato, sia perché eravamo neopromossi sia perché mancavano elementi di categoria, ci siamo ripresi raggiungendo quasi la zona salvezza. Purtroppo, certe squadre genovesi che si trovavano a 10-12 lunghezze da noi – non si sa se fossero migliorate, se avessero comprato giocatori più forti o se fossero state un po’ aiutate – a un certo punto hanno cominciato a vincere ogni partita arrivando a raggiungerci. Concluso il torneo alla pari con altre due squadre, la classifica avulsa ci ha costretti allo spareggio con la Culmv di Genova che abbiamo perso ai supplementari per 2-1 con entrambi i gol genovesi irregolari (il primo segnato in fuorigioco, il secondo realizzato con un colpo di mano non visto né dall’arbitro né dai guardalinee). Per il Quiliano e per Quiliano la retrocessione è stata drammatica: mancavano i soldi per mantenere in piedi la società, qualche dirigente ha lasciato e qualcun altro, addirittura, non voleva più neppure iscrivere la squadra. Poi, ripartendo dalla Prima Categoria, è stato deciso di dare un taglio con il passato e, di conseguenza, molti di noi hanno cambiato squadra perché non c’erano più le prospettive che ci stimolavano ad andare avanti: l’orizzonte era nebuloso, non si sapeva chi sarebbe venuto a giocare e qualcuno avrebbe voluto disputare il campionato con la juniores per evitare di avere “senatori” in squadra. Io, Bertola, Cavaliere, Bellisio e altri protagonisti del periodo d’oro siamo emigrati verso altri lidi e abbiamo proseguito le nostre carriere lontano da Quiliano. Io, per esempio, ho giocato ancora per parecchi anni in Riviera: nel Borghetto ‘84, nel Borgio Verezzi, nel Finale.»

Come è stato per te il dopo-calcio e che cosa continua a rappresentare per te questo sport?

«Io ho smesso di giocare a 36-37 anni perché non volevo essere un peso per me in primis, dato che facevo un lavoro molto pesante e avevo un figlio piccolo da crescere. Ho fatto un paio d’anni di “disintossicazione” dal calcio pensando solo al lavoro e alla famiglia, dopodiché la passione è riaffiorata. Dopo aver iniziato in punta di piedi come preparatore dei portieri, qualcuno mi ha detto: “Perché non ti prendi una squadretta?”. Così, grazie ai miei vent’anni di tesseramento nelle prime squadre sommati a quelli nelle giovanili, ho avuto l’occasione di entrare in graduatoria per il corso allenatori UEFA B che ho frequentato a Molassana. Una volta conseguito il patentino ho iniziato ad allenare e sono 14 anni che lo faccio. Fatta tutta la trafila (Pulcini, Esordienti, Giovanissimi), sono approdato alle juniores regionali del Finale e del Pietra Ligure proseguendo poi nei settori giovanili di altre società della provincia come Veloce e Speranza. Attualmente sono alla guida degli Allievi del Celle Riviera Calcio, anche se non stiamo giocando per via dell’emergenza sanitaria. Essendo giunto al top a livello giovanile, a questo punto mi manca l’ultimo traguardo: la guida di una prima squadra, che rappresenterebbe il vero obiettivo della mia carriera di allenatore. Una carriera che continua a impelagarmi fino ai capelli, anche se purtroppo non li ho più.»

Per concludere, Giorgio: quali sono le differenze che hai riscontrato maggiormente nel passaggio dal campo alla panchina?

«Diciamo che da giocatore influenzavo maggiormente le partite: se dovevamo vincere, ce la mettevo tutta per impedire agli avversari di fare gol e potevo giocarmela io. Da allenatore, avere undici cervelli diversi che in campo dovrebbero interpretare il calcio e la partita come vorresti tu è molto più difficile da seminare e da spiegare. A volte, quando perdi la partita, ti capita di dire: “Cavolo, se avessi giocato io all’epoca non avremmo perso!” ma non sai come rimediare anche perché, dalla panchina, più che qualche sostituzione non puoi fare. Mentre invece da giocatore puoi mettere mano tu alla squadra e darle quel qualcosa in più, la vivi con intensità assoluta.»

 

 

 

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