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NEL PRATO DI LAURA (3)

Il prato come serbatoio alimentare ed officinale: dal cibo fragrante ai rischi delle specie tossiche. LAURA BRATTEL   Un altro dono del prato sono le verdure selvatiche. Un tempo, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera molte donne si recavano nei prati a raccogliere diverse specie vegetali, selezionate con particolare attenzione, la cui conoscenza […]

Il prato come serbatoio alimentare ed officinale: dal cibo fragrante ai rischi delle specie tossiche.

LAURA BRATTEL

 

Un altro dono del prato sono le verdure selvatiche.
Un tempo, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera molte donne si recavano nei prati a raccogliere diverse specie vegetali, selezionate con particolare attenzione, la cui conoscenza veniva tramandata nel corso delle generazioni di madre in figlia. Sono tutte le verdure che costituiscono il cosiddetto “prebuggiùn”, di cui la scrivente ha individuato 16 specie, oltre a due aggiuntive in via di riconoscimento botanico.

Piante commestibili usate nel “prebuggiùn”. In ordine da sinistra a destra, dall’alto al basso: boccione maggiore (Urospermum dalechampii, “amaùn”); piantaggine (Plantago lanceolata, “uegge de cuniggiu”); papavero (Papaver rhoeas, “baxadonne”); tarassaco (Taraxacum officinale, “radicciùn”); grespino dei campi (Sonchus oleraceus, “laciansùn”); malva (Malva sylvestris, “marva”); cicoria selvatica (Cichorium intybus, “radiccia”); costolina (Hypochaeris radicata, “cuiga”); borragine (Borago officinalis, “buròxe”)

 

NELLA RACCOLTA UNA LEZIONE AMBIENTALE

Queste verdure, dai gusti variegati, ora dolce ora amarognolo, ora acidulo ora intenso e quasi pepato, costituivano un patrimonio alimentare immenso, che permetteva di elaborare fantasiose e gustose ricette.
Le erbe venivano raccolte con cura, la testa china ad aspirare i profumi della terra, l’occhio esperto pronto a distinguere i caratteri morfologici primari di ogni specie. Coltellino alla mano, si recideva l’erba buona alla base, tra la radice e il colletto. La parte interessante dal punto di vista culinario era costituita dalle foglie, mentre la radice doveva rigorosamente restare piantata dentro il suolo, a garantire un raccolto per l’anno successivo. Un tenero gesto d’amore, testimone della cura per l’ambiente, oltre che di un razionale pragmatismo femmineo.

UN BANCO DELLA SPESA SEMPRE APERTO

Queste erbe erano principalmente la base del ripieno dei ravioli, ma ne venivano fatte anche frittate, minestre, torte di verdure.
Tra le verdure selvatiche destinate alla raccolta ricordiamo il caccialepre, il grespino dei campi, la costolina, la borragine, il raperonzolo, la cicoria selvatica, il tarassaco, l’ortica, la malva e svariate altre.
Ormai siamo rimasti in pochi a raccoglierle, e mi capita sempre di stupirmi allorché mi si chiede come distinguere le varie specie. Essendo abituata fin dalla più tenera infanzia a riconoscerle e ad utilizzarle, sinceramente mi capita di non pormi il problema. In realtà ritengo di essere stata fortunata ad avere una nonna come la mia, ed una madre altrettanto attenta, donne meravigliose che mi hanno insegnato ad amare ed apprezzare la Natura.

PIANTE OFFICINALI, LA LEZIONE DI CARLO MAGNO

Oltre ad ospitare erbe commestibili, il prato è anche serbatoio di specie officinali, molto importanti nel corso della storia, poiché costituivano la base della farmacopea di epoche passate.
Fu Carlo Magno, con il “Capitulare de villis”, un corposo decreto emanato a cavallo dei secoli VIII e IX (770-813), a stabilire quali piante non potessero assolutamente mancare nei vari borghi dell’impero, specie a prevalenza prativa, ma reperibili anche in altri habitat, che vennero prelevate e trapiantate con cura nei giardini officinali dei monaci. Nelle borgate sparse per la campagna ed il bosco, però, i rimedi farmaceutici rimanevano nelle loro sedi originarie: il prato, la macchia mediterranea, il bosco.
Tali rimedi popolari sono sopravvissuti parzialmente fino ai nostri giorni, consentendo la preparazione, ad esempio, dell’oleolito di iperico, l’erba di San Giovanni, da raccogliere rigorosamente all’alba del giorno dedicato al santo.

UN’ERBA PER L’EMORRAGIA

Ricordiamo anche l’uso delle foglie di Hieracium pilosella, da noi denominato “lengua de gattu”, come cicatrizzante. Purtroppo l’utilizzo consueto della falce nei campi e nelle fasce dava luogo a ferite, la cui emorragia veniva arrestata mediante l’applicazione di tali foglie. E non meno importante era la raccolta della cacciafebbre (Centaurea erythraea), sorta di chinino nostrano dalle proprietà sudorifere, antinfiammatorie e febbrifughe, da usare in caso di febbre alta. Purtroppo ne ricordo con orrore il gusto decisamente amaro!

IL PERICOLO DELLE SPECIE TOSSICHE E LETALI

Per concludere la chiacchierata riguardo ai doni del prato, non è vano rammentare che il prato ospita anche varie specie tossiche, dagli effetti più o meno gravi, talvolta anche letali.
Ne sono un esempio il Vincetoxicum hirundinaria, l’Echium vulgare (erba viperina), la Bryonia dioica (che ad occhio non esperto si può confondere con il luppolo) o la Daphne gnidium. Quest’ultima, fino a qualche tempo fa, era usata sul nostro territorio come esca per catturare le anguille, ma mi è purtroppo noto un caso di morte dell’improvvido pescatore, causata da una successiva pulizia del pesce non troppo accurata.

Piante tossiche. In ordine da sinistra a destra, dall’alto al basso: vincetossico (Vincetoxicum hirundinaria); brionia (Bryonia dioica); gnidio o erba corsa (Daphne gnidium, “töscigu”); erba viperina (Echium vulgare)

INVITO ALL’OSSERVAZIONE, RISPETTO E STUPORE

L’invito è dunque quello di camminare per i prati e per i boschi della nostra vallata imparando ad osservare e, principalmente, a stupirsi, serbando un affettuoso rispetto, con il cuore pieno di gratitudine immensa verso questo pianeta meraviglioso che abbiamo l’enorme fortuna di abitare.

Continua (3)

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